Wish you were here

per Jonny

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    Margareth E. Hamvik » witch
    “How I wish, how I wish you were here.
    We're just two lost souls swimming in a fish bowl,
    year after year,
    running over the same old ground.
    What have we found?
    The same old fears,
    wish you were here.”


    Era stato un periodo un po’ complicato, decisamente movimentato direi. Da quando le fate erano arrivate in città non c’era più stata la stessa pace, neanche i ribelli erano riusciti ad impensierire tanto la corte, ma quello che in realtà era rimasto maggiormente impresso nella mia mente era stato quello strano rituale e l’ansia che questo aveva fatto nascere in me. Non ero più riuscita a ritrovare la stessa tranquillità, non ero più riuscita ad andare in giro per le strade senza pensieri, come facevo prima, ero diventata più guardinga e sospettosa. Riuscivo a vedere un pericolo anche dove non c’era e ogni rumore sospetto mi faceva sussultare preoccupata. Tutti mi avevano detto che sarebbe passato, persino la mia famiglia lo aveva fatto, che era soltanto una faccenda passeggera e che tutto sarebbe tornato al suo posto, ma più il tempo passava e più difficile diveniva per me convincermi che fosse davvero così. Iniziavo a pensare che non sarei più tornata ad essere la stessa di prima, che qualcosa fosse irrimediabilmente cambiato in me e non ci fosse alcuna possibilità di rimetterlo al suo posto. Mi guardavo allo specchio e non riuscivo a vedere la stessa persona che ero stata, continuavo a vedere una persona che non mi piaceva e che, in qualche modo, trovavo deludente. Forse era soltanto una questione psicologica, in fondo nessuno mi aveva detto di aver trovato chissà quali cambiamenti in me, eppure io non riuscivo a smettere di pensarci. E qualcosa dentro di me continuava a ripetermi che non si trattava soltanto di quella notte, che c’era qualcosa di ben più profondo e irrimediabile a cambiare le cose. Era forse quella nuova magia che mi scorreva nelle vene ad aver cambiato ogni cosa, a stare cambiando me passo dopo passo, in maniera lenta e graduale, o stavo semplicemente crescendo? Non avrei saputo dirlo, ma la parola che quella nuova magia potesse cambiarmi radicalmente era forte, forse persino più forte della realtà.
    Avevo cercato di rimanere calma e di non pensarci, di scacciare quel pensiero dalla testa per non renderlo sempre più attinente al vero, ma non era stato così semplice e il più tempo passava e più quella paura si faceva ostinata e insopportabile. Strinsi i pugni sul davanzale della finestra, lo sguardo perso verso l’esterno del castello, verso quei parchi che avevo percorso così tante volte e un leggero sorriso triste fece capolino sul mio volto al ricordo di tutte le volte in cui io e Jonathan ci eravamo ritrovati lì, da soli, per stare un po’ tranquilli o semplicemente fare una passeggiata. Era da mesi che non lo vedevo ormai e più il tempo passabile più la sua assenza mi pesava e mi faceva desiderare di rivederlo. Sapevo che era stato mandato lontano per una missione e che in fondo era giusto così perché quello era il suo ruolo all’interno del palazzo, essendo una guardia reale, eppure avrei preferito che non lo avessero fatto, che lui fosse rimasto lì, a Londra, con me. Forse tutti quei pensieri sarebbero stati più sopportabili, forse la sua presenza sarebbe riuscita a rallegrarmi ancora una volta, o forse no, ma sicuramente mi sarei sentita meno sola. Sospirai affranta, andando ad appoggiare una spalla contro l’incavo del muro in cui si trovava la finestra, continuando a guardare l’esterno, come nella speranza di vederlo tornare, insieme a tutti gli altri, sano e salvo. Non potevo neppure concepire l’idea che non tornasse, non lui, non sarei probabilmente riuscita ad accettarlo. Era il mio migliore amico e, per quanto forse potesse apparire egoista il mio pensiero, avevo davvero bisogno di lui in quel momento.
    -No, pare che non si sia ancora ripreso, è da qualche giorno che sta così.
    La voce concitata di due apprendiste, a qualche metro di distanza, mi fece voltare appena, senza però riuscire a comprendere di che cosa stessero parlando. Mi feci più attenta, cercando di capire quale fosse l’argomento del giorno e chi o cosa fosse al centro della loro attenzione, ma non riuscii a cogliere molte notizie. Parlavano di qualcuno che era rimasto ferito e che non riusciva a guarire e allora non riuscii a trattenermi e mi avvicinai a loro. -Scusatemi, ho sentito alcune parole del vostro discorso, abbiamo un ferito al castello? – chiesi, in parte incuriosita, in parte preoccupata, perché se non riusciva a guarire allora doveva trattarsi di qualcosa di grave e magari avrei potuto aiutare in qualche modo. Una delle due ragazze sussultò appena, probabilmente non si era aspettata di venire interrotta e attese qualche momento prima di rispondermi, rimanendo a fissarmi. -Sono tornati alcuni soldati da una missione, sono davvero in pochi, pare che sia stata davvero rovinosa. - iniziò lei e il mio sguardo si fece terribilmente più attento. Soldati, missione. I miei pensieri corsero immediatamente a Jonny, terribilmente preoccupata. Era della sua missione che stavano parlando? Sentii il cuore iniziare ad accelerare il suo battito e mi costrinsi a cercare di rimanere tranquilla. -Quando sono tornati? Di che missione si trattava? – chiesi e mi resi conto che la mia voce suonò quasi imperativa, mossa com’ero dall’agitazione. Le sue ragazze scossero il capo, stringendosi nelle spalle. -Sono tornati pochi giorni fa, ma non sappiamo quale fosse la missione, nessuno ce l’ha comunicato. - e io annuii. In fondo era logico, i reali non davano mai troppe indicazioni, temevano sempre che nel castello potesse nascondersi qualche spia. -La persona di cui stavate parlando prima, chi è? Che cosa gli è successo? – mi decisi a chiedere poi, ponendo quella che era la domanda che mi premeva più di tutte. -E’ un ragazzo, ha riportato delle ferite da strozzalupo che sembrano non voler guarire. - iniziò la ragazza e il mio cuore mancò un battito a quella notizia, ma rimasi in attesa di un’altra parola, quella decisiva. -Mansfield, mi pare che quello sia il suo cognome. - aggiunse quindi, pensierosa. E fu quello il momento in cui mi parve che tutto il mondo mi crollasse addosso. -Dov’è? – fu l’unica cosa che riuscii a chiedere ancora, mentre la mia mente iniziava a perdersi.
    Annuii appena quando mi rivelarono la sua posizione, per poi allontanarmi di fretta da loro, iniziando persino a correre per cercare di raggiungerlo quanto prima. Era tornato da qualche giorno e io non lo avevo saputo, stava male e non avevo saputo neanche quello, com’era potuto succedere? Spalancai la porta di quella sorta di infermeria senza curarmi di tutte le persone che potevano trovarsi al suo interno. Il mio sguardo vagò alla ricerca dell’unica persona di cui mi importasse e quando riuscii a individuarlo non riuscii comunque a sentirmi sollevata. Era vivo, era tornato, ma le sue condizioni non sembravano comunque buone. Non era lo stesso Jonny che avevo visto mesi prima, era decisamente più provato e dovetti trattenere le lacrime mentre raggiunsi la sua postazione. -Sei tornato. – fu l’unica cosa che riuscii a dire, senza staccare gli occhi da lui, facendo un notevole sforzo per non scoppiare a piangere davanti a lui. -Nessuno mi ha informata, io… – iniziai, ma mi bloccai quasi subito. Non era il momento per quel genere di cose, non ora. -Oh cielo Jonny, che ti è successo? – chiesi allora, terribilmente preoccupata, sperando che potesse darmi una risposta. Avrei voluto abbracciarlo, stringerlo forte e dirgli che sarebbe guarito presto, che avrei fatto qualunque cosa per aiutarlo, ma non ci riuscii. Rimasi a guardarlo, con il cuore che batteva all’impazzata e la preoccupazione ben impressa negli occhi. Non sapevo che cosa aspettarmi da lui. Non sapevo se sarebbe stato felice di vedermi o se invece si sarebbe arrabbiato perché ero arrivata così tardi. -Perché non mi hai fatta chiamare subito? – chiesi, allora, senza riuscire a trattenere quella domanda.

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    Jonathan Mansfield » Lycan
    « I don't need your civil war
    It feeds the rich while it buries the poor
    Your power hungry sellin' soldiers
    In a human grocery store
    »

    Indossare una livrea permette di godere di vari benefici: si viene rispettati, si può fare qualche strappo alla regola, lo stipendio è assicurato. In cambio di tutto ciò deve esserci la fedeltà assoluta, l’essere pronti e partire. Era il loro lavoro, il lavoro di ogni soldato, di ogni guardia del castello. Tutti dovevano essere pronti alla chiamata del Re o dei Principi. Un diniego era pari all’alto tradimento: la livrea ti veniva strappata di dosso, il tuo nome veniva macchiato di infamia. Anni di servizio venivano completamente dimenticati di fronte ad un no al tuo monarca. Jonathan Mansfield era sempre stato un giovane leale, anche davanti alle ingiustizie compiute dai ricchi verso i più deboli. Li sentiva vicini, eppure il suo animo era impregnato di un solido senso del dovere; non tanto nei confronti della famiglia reale, quanto più nei confronti di Aleera e suo padre. Era cresciuto con loro, divenuto parte della famiglia. Non poteva tradirli: nel suo piccolo avrebbe tentato di portare un po’ di serenità a qualche sfortunato, ma il resto del giorno il suo compito era quello di proteggere la monarchia ed essere al suo completo servizio. Quando questo dovere diveniva troppo opprimente, Margareth riusciva a distrarlo, la sua compagnia gli sollevava qualsiasi preoccupazione e qualsiasi dolore. Era una di quelle persone che non avrebbe mai voluto abbandonasse la sua vita. Era un tassello fondamentale: i giorni senza la sua presenza passavano lentamente, erano vuoti. Nonostante tutto, nonostante nei mesi prima di partire l’avesse vista più cupa e preoccupata, la giovane riusciva ad illuminargli la giornata. Aveva imparato a distinguere il battito del suo cuore in mezzo a quello di molte altre. Il suo profumo era il primo aroma che il suo naso percepiva appena percorreva i corridoi del castello. Non aveva avuto il tempo di salutarla, il dovere lo aveva strappato dalla sua casa, dalla sua famiglia. Fin dall’inizio quella missione sembrava essere stata organizzata con l’unico scopo di sacrificare degli esseri umani: l’obiettivo non era ben chiaro, tutto era stato organizzato alla rinfusa. Nemmeno Aleera sembrava essere a conoscenza dei piani del re. Ma non si poteva rifiutare. Data la sua vicinanza ad Aleera, ben presto il gruppo vide in Jonathan Mansfield un leader. Il giovane licantropo tuttavia si non si vedeva adatto a quel ruolo. Furono mandati in terre sconosciute: erano sicuramente al nord, poteva perfettamente riconoscere l’odore del vento che accarezza violento la brughiera. Ben presto i compagni iniziarono a venir meno, le imboscate notturne erano imprevedibili ed era persino impossibile comprendere quali fossero le creature che li stavano attaccando. Jonathan iniziò a macchiarsi del proprio sangue, del sangue dei propri compagni e di questi nemici sconosciuti. Angoscia. Intrapresero un viaggio di ritorno dominato da questo sentimento. Non aveva mai provato il dolore causato dalle ferite di strozzalupo: sentiva la sua carne che non riusciva a rimarginarsi, per la prima volta potè sentire sulla propria pelle il proprio sangue fluire ininterrottamente, rendendolo di passo in passo sempre più debole. Conobbe la stanchezza assieme al dolore fisico e i suoi occhi stanchi avrebbero desiderato vedere solamente le donne della sua vita, invece che cadaveri e boschi senza fine. Per la prima volta sentii la boscaglia essergli nemica. Lentamente sentii l’istinto di sopravvivenza prevalere sulla ragione, ma per un licantropo questo significa solamente una cosa: risvegliare il proprio lupo. E alla stanchezza, al dolore, si aggiunse il terrore di perdere il controllo. Di divenire una bestia assetata di sangue alla successiva luna piena. Fu estenuante combattere contro il mondo esterno e contro se stessi. Jonathan più di una volta pensò seriamente di non riuscire a fare ritorno a casa. Eppure ora quella casa gli sembrava più nemica che amica: che senso aveva avuto quella missione? Quale ragione c’era dietro tutto a quel sangue versato? Di quale partita a scacchi erano stati le pedine? Ben presto cadde l’inverno, i pochi superstiti misero piede a Londra in una giornata di pioggia pesante. Sentiva le sue membra stanche bagnarsi di pioggia e il camminare gli venne ulteriormente difficile. Sentiva i piedi affondare nel fango della strada dissestata. Portava sulla schiena l’ennesimo compagno ferito, che sperava giungesse ancora vivo al palazzo. Si ritrovò addosso la sensazione di aver perso completamente la propria spensieratezza. Il futuro non riusciva ad immaginarlo, nemmeno le ore del giorno successivo. Anche pensare era diventato pesante. Una cosa sola desiderava: dormire. Chiudere gli occhi e sperare di riuscire a sognare qualcosa di bello. Voleva ritornare a sognare i cervi che gli scappavano nel bosco londinese. Voleva tornare all’idea bucolica e idilliaca di quel luogo che tanto aveva amato. Una volta a palazzo furono immediatamente soccorsi, anche se Jonathan cercò di opporsi: voleva tornare a casa, non voleva rimanere a palazzo. Si sentii giorno dopo giorno in gabbia, le ferite non si rimarginavano ed ogni cura sembrava più dolorosa che efficace. Era disteso su una branda, a torso nudo con le ferite esposte: armi da fuoco, con proiettili imbevuti di strozzalupo. Appariva smagrito, gli occhi ridenti e celesti una volta, ora erano circondati da un alone nerastro, dovuto alla stanchezza e alle ferite. Un leggero velo di barba biondiccia era presente su quel volto, il quale aveva sempre ricordato più un fanciullo che un giovane uomo. All’improvviso un odore familiare raggiunse il suo olfatto: un sorriso spontaneo comparve sul volto, anche se sembrava stanco e tirato. Margareth dissi sommessamente, quando la vide giungere al suo giaciglio. La vedeva e non la vedeva: probabilmente aveva in circolo ancora dello strozzalupo, che andava ad inibire ogni suo senso. Strinse i denti all’ennesima fitta proveniente dalle ferite, i muscoli si contraevano cercando di contrastare quel dolore, peggiorando ulteriormente la situazione. Il respiro era affaticato dal dolore che da un effettivo danno al torace. Tuttavia la sua ultima domanda, sebbene fosse espressa in tono apprensivo e non accusatorio, gli diede un’insolita sensazione di fastidio e di irritazione. Anche a questo dovevo pensare disse con un tono acido che non gli apparteneva, con una vena sarcastica, come se Margareth con quella semplice domanda lo avesse caricato di un’ulteriore responsabilità mancata. Ben presto si accorse di quel modo di fare che di natura non gli apparteneva, ma che in quell’istante tuttavia venne totalmente spontaneo. P-Perdonami disse, senza guardarla negli occhi, spostando ora lo sguardo dal viso di lei ad un punto a vuoto sulla parete. Non sapeva cosa altro dirle, non voleva parlare, voleva che il dolore finisse e desiderava la sua casa. Non voleva avere a che fare con i reali, non subito, non così. Non voleva rispondere alle domande. Voleva riuscire a dormire.



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    Margareth E. Hamvik » witch
    Non avevo neppure valutato l’idea che una cosa come quella potesse accadere, non avevo pensato che il suo rientro mi sarebbe potuto sfuggire. Avevo dato per scontato che sarebbe venuto a cercarmi, che qualcuno in qualche modo me lo avrebbe fatto sapere subito, senza alcuna attesa, ma così non era accaduto e la cosa mi aveva lasciata sorpresa e confusa. Come avevo fatto a non vederlo? E perché lui non era venuto da me? Perché non aveva chiesto di me? Pensava davvero che altre streghe potessero aiutarlo più di quanto avrei potuto fare io?
    Lo guardai per qualche secondo, analizzando ogni dettaglio del suo volto stanco e provato, cercando di comprendere l’angoscia che leggevo nei suoi occhi e nella sua espressione, cercando in tutte quelle cose una risposta alla domanda che continuava a premere nella mia testa: perché? Che cosa era cambiato in tutti quei mesi? Che cosa era successo? Continuavo a guardarlo senza riuscire a scorgere i familiari tratti allegri e giocosi in quegli occhi incavati e contornati da occhiaie scure e profonde, non riuscivo a rivedere il ragazzino che avevo conosciuto in quel volto dimagrito, in quella leggera barba biondiccia che non gli avevo mai visto addosso. E mi resi conto di quanto anche lui fosse cambiato, di quanto quella missione dovesse averlo segnato. Neppure a quello avevo pensato, quell’ipotesi non mi aveva mai neppure sfiorato la mente. Ero convinta che rivedendolo avrei ritrovato la stessa persona, che sarebbe stata un’occasione allegra e giocosa e che con il suo ritorno tutto sarebbe tornato al suo posto, ma più lo guardavo e più mi rendevo conto di quanto niente di tutto questo sarebbe avvenuto davvero? Mi chiesi che cosa potesse vedere lui dentro di me, che impressione potesse avergli fatto rivedermi, dopo tutti quei mesi, se anche ai suoi occhi fossi in qualche modo cambiata.
    Tentai di abbozzare un sorriso quando lo sentii pronunciare il mio nome, senza tuttavia metterci dentro la solita spensieratezza. Ero seria e preoccupata e vederlo su quel letto con le ferite da arma da fuoco in vista, che sembravano non essersi affatto rimarginate, non aveva certamente migliorato la faccenda. Misi da parte l’imbarazzo che scatenò in me il vederlo a torso nudo, troppo in ansia per potermi concentrare su qualcosa di sciocco come quello. Era ferito, stava male, era questa l’unica cosa a cui io riuscissi a pensare e allora tentai di chiedergli qualcosa, tentai di farmi spiegare da lui che cosa gli fosse capitato. Lo vidi stringere i denti, cercando di tenere a bada il dolore che doveva provare, prima di deglutire a fondo e decidermi a porgli quell’ultima domanda. Non sapevo neppure io che cosa mi avesse spinto a farlo, non sapevo neppure che genere di risposta mi fossi aspettata, ma certamente non quella che ottenni in cambio. Doveva pensarci, questo mi rispose, con un tono che non mi aveva mai rivolto prima e che mi fece irrigidire ulteriormente. Pensare a cosa?
    Non riuscii a mascherare un’espressione confusa e forse persino un po’ delusa da quelle parole, per poi cercare di abbassare velocemente lo sguardo, puntandolo verso il pavimento e prendere un profondo respiro. Anche lui abbassò il suo, per poi chiedermi di perdonarlo, ma a questo non risposi. Continuavo a chiedermi dentro di me che cosa volesse dire con quelle parole, che cosa fosse accaduto in tutto quel tempo. Tentai di mordermi la lingua e di frenare quell’impeto di fastidio che mi stava nascendo dentro, ma non ci riuscii. -Pensarci? – chiesi con la voce incrinata dall’agitazione, forse sollevandola un po’ troppo, attirando così l’attenzione di una delle altre streghe. -Miss Hamvik, il signor Mansfield deve cercare di riposare, non può affaticarsi. - mi sgridò lei puntandomi addosso lo sguardo e io annuii appena, spostando il mio sguardo nella sua direzione. -Che cosa gli avete dato? – e stavolta mossi un passo verso la strega e le sue colleghe, allontanandomi un po’ da Jonny e dalla quella situazione che iniziava a farmi stare male. -Non riusciamo a comprendere perché non riesca a rimettersi in senso, abbiamo provato di tutto. - tentò lei, muovendo un passo all’indietro, probabilmente spaventata da quel confronto. Assottigliai lo sguardo, confusa da quella sua reazione che non mi lasciava intendere nulla di buono: stavano davvero cercando di fare qualcosa? -Che cosa gli avete dato? Voglio vedere il suo diario. – e la mia voce si fece sempre più seria e autorevole mentre andavo avanti. Sapevo di trovarmi in una posizione superiore alla loro e non mi preoccupai di usare la cosa per cercare di ottenere quello che volevo, non se si trattava di Jonny. -Noi, noi non lo abbiamo scritto… - farfugliò lei, senza sapere dove guardare per evitare il mio sguardo e fu allora che le scoccai un’occhiata furibonda. -Voi COSA? – chiesi, gonfiando il petto e portando le mani sui fianchi. -Fuori di qui. – mormorai, prima con tono di voce normale, per poi ripeterlo a voce ben più alta quando cercarono di opporsi. Sapevo che probabilmente mi sarei beccata un rimprovero, ma non mi importava, non in quel momento. Avrei affrontato più tardi le conseguenze delle mie azioni, ora mi interessava soltanto aiutare lui.
    Attesi che le due si allontanassero da quella stanza prima di trafficare nei vari armadietti contenenti differenti ingredienti, nessuno dei quali sembrava essere particolarmente utile. Presi una ciotola con dell’acqua e un pezzo di stoffa, per poi prendere gli unici unguenti utili che riuscii a riconoscere, per poi riavvicinarmi a lui. -Mi dispiace. So che hai bisogno di riposare, so che stai male, ma ho davvero bisogno di sapere che cosa è successo. – chiesi, avvicinando uno sgabello al suo letto per evitare di sedermici. In un’altra occasione lo avrei fatto, ma dopo quello che mi aveva appena detto non me la sentii. -Non mi fido di loro. Non so che cosa ti abbiano dato in questi giorni, ma il fatto che non lo abbiano registrato non è un bene. – dissi, piano, guardandolo dritto negli occhi e sperando così che cogliesse tutta la mia preoccupazione. -Voglio portarti via da qui e voglio aiutarti, quindi ti prego, lasciamelo fare. – continuai, per poi lasciarmi andare ad un lungo sospiro. Forse stavo esagerando, forse la mia era soltanto apprensione, ma era assurdo che fossero state tanto semplicistiche da non registrare alcuna delle cure che gli avevano somministrato. -Le tue ferite sono ancora piene di strozzalupo, riesco a sentirne l’odore sin qui e non potrai guarire fino a che non verrà eliminato tutto, devo cercare di pulirle meglio, ma farà male. – e ancora una volta lo guardai negli occhi, trattenendo appena il respiro, aspettando un suo cenno prima di iniziare la mia opera.
    Mi sentivo un po’ a disagio. Vederlo in quello stato mi faceva stare male e sapere che lui aveva dovuto pensarci prima di chiamarmi mi faceva stare ancora peggio, ma in quel momento non potevo concentrarmi su quello, non era la nostra amicizia la mia priorità, era la sua vita e avrei usato tutte le mie conoscenze pur di aiutarlo a rimettersi in sesto. Solo allora, forse, avremmo potuto parlare del resto.

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    Jonathan Mansfield » Lycan
    Quanto aveva pensato a lei in quei mesi? Durante la missione quello che aveva desiderato maggiormente era averlo al proprio fianco e poterla abbracciare spensieratamente, come se nulla di terribile stesse succedendo. Aveva pensato più volte di scriverle, tuttavia non aveva mai avuto il tempo materiale per farlo, né le forze. In quel momento, se Margareth gli avesse chiesto dove erano stati, Jonathan non sarebbe nemmeno stato in grado di spiegarglielo. L’unica cosa che ricordava perfettamente era il freddo vento del nord e basta. Nella sua testa, ormai, al nord veniva associato solamente il sangue: il sangue di suo padre, il sangue dei suoi compagni, il suo sangue. La terra dove era nato diveniva anno dopo anno una terra maledetta e il licantropo si sentiva figlio di questa maledizione. Dopo questa missione, dentro di sé cresceva giorno dopo giorno la convinzione che, se l’avesse fatta finita tanto tempo prima, tutto ciò non lo avrebbe dovuto affrontare. Ora aveva la possibilità di lasciarsi andare, di rifiutare quelle cure per avviarsi verso il nulla. Eppure non riusciva, forse perché le ferite che aveva erano estremamente dolorose, per cui il suo istinto lo portava inconsciamente a sopravvivere a quel dolore. Se non avesse avuto dolore, sarebbe bastato chiudere gli occhi? Ad ogni modo, la migliore amica a cui aveva sempre pensato in quei momenti terribili ora era lì, tuttavia non sapeva dire se ne era felice o no. In quel groviglio di emozioni e dolore la felicità non riusciva ad emergere. In un certo senso, Margareth poteva esserci o non esserci e per lui non avrebbe fatto alcuna differenza. La sua domanda, la sua espressione gli risultavano quasi irritanti: nella sua mente ancora sconvolta quelle affermazioni gli suonavano come l’ennesima responsabilità mancata, l’ennesimo sbaglio dopo un susseguirsi di scelte che li avevano condannati a ciò. Cercò di ignorare le sue domande, non riusciva a concentrarsi e non voleva ferirla ulteriormente. Era quasi come se su quel letto non esistesse più il Jonny di una volta, quegli occhi azzurri mostravano solo dolore e rancore. Era evidente dalle movenze del corpo e dai muscoli contratti che il licantropo era irrequieto, guardingo e pronto ad attaccare. Stringeva con i pugni le lenzuola, mentre la carne continuava a bruciare e non si rimarginava. Non aveva mai provato una sensazione simile, non gli era mai successo che lo strozzalupo gli venisse inferto così profondamente nel corpo. Sentiva da lontano la conversazione di Margareth con le altre streghe, senza tuttavia comprendere la gravità della situazione: l’ultimo suo pensiero era quello che stessero tentando di farlo fuori definitivamente. Non sapeva che fine avessero fatto i suoi compagni sopravvissuti, nella sua testa dovevano essere in altre stanze del castello, sottoposti a cure come lo era lui. Sentii il tono imperioso di Margareth, ma anche questo non lo smosse. La vide avvicinarsi di nuovo, corrugò la fronte quando gli disse che voleva portarlo via da lì, perché non si fidava. Casa. Portami a casa proferì tra i respiri mozzati dalle fitte. Sperava di poter contare su di lei, almeno lei. Gli disse che doveva pulire lo strozzalupo, annuii deglutendo, chiudendo le palpebre e attendendo le manovre della strega. Quando iniziò a curarlo, Jonathan non riuscì a trattenere un grugnito di dolore: strinse i denti e, sebbene nella loro forma umana i licantropi non possedessero i tratti distintivi del lupo, la sua espressione ricordava quella dell’animale ferito e pronto a sfoderare le zanne. I pugno tiravano le lenzuola, non sapeva per quanto ancora avrebbe resistito: doveva farlo, perché anche solo un gesto istintivo avrebbe potuto fare del male alla strega e Jonathan negli ultimi mesi aveva imparato ad ascoltare maggiormente l’istinto che la ragione. Muoviti sibilò a denti stretti, ancora con quel tono di comando che non era mai appartenuto al giovane. Anche quando aveva attaccato il vampiro alla festa di Halloween, Jonathan comunque non si era mai mostrato così lupino. I muscoli contratti mettevano in rilievo le venature del giovane, risaltate dalla magrezza eccessiva che non lo aveva mai caratterizzato. Quelle ferite sarebbero rimarginate, sì, ma lasciando delle profonde cicatrici, che le semplici armi umane non potevano lasciare sulla pelle di un licantropo.


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    Margareth E. Hamvik » witch
    Che cosa era successo in tutto quel tempo? Che cosa gli era capitato durante quei lunghi mesi di assenza? Mi rendevo conto che qualcosa fosse cambiato, che qualcosa di terribile dovesse essere accaduto senza che io potessi saperne nulla e la cosa, se possibile, mi faceva stare ancora peggio. Non era lo stesso ragazzo di ricordavo, nulla di lui era rimasto uguale, neppure il suo aspetto. Sembrava un lupo in gabbia, pronto a difendersi e ad attaccare di fronte al minimo pericolo, un lupo ferito che non vedeva l’ora di fuggire il più lontano possibile. Eppure non era così semplice, le sue condizioni sembravano non permetterglielo, non in quel momento. E quella situazione non mi piaceva, non mi piaceva il modo in cui le altre streghe stavano affrontando le sue ferite, non mi piaceva il fatto che fosse ancora ferito. Mi chiese si riportarlo a casa, con la voce spezzata dal dolore e io trattenni il respiro per un secondo, senza sapere che cosa dirgli. Non potevo farlo ora, eppure non potevo neanche lasciarlo lì. -Farò il possibile per riportarti a casa, ma non posso farlo da sola. – dissi, con voce calma ma seria allo stesso tempo. Non sarei riuscita a caricarmelo sulle spalle, avevo bisogno che lui si riprendesse un po’ o che qualcuno mi aiutasse a portarlo via di lì e ancora non avevo deciso quale fosse il modo migliore. Mi permise comunque di cercare di ripulire le sue ferite e allora iniziai a mettermi al lavoro, cercando di non badare troppo alle sue espressioni e ai suoi gemiti di dolore. Mi dispiaceva fargli ancora del male, eppure in quel momento non c’era davvero altro modo, non se voleva guarire. Rimasi in silenzio per tutto il tempo, pensando soltanto alle sue ferite e non mi lamentai neanche quando mi chiese di fare in fretta, con tono decisamente autoritario. -Ho quasi finito. – fu infatti la mia unica replica, senza alcuna particolare inflessione nella voce. Volevo aiutarlo, volevo farlo con tutte le mie forze, eppure quella situazione non mi permetteva di essere amichevole quanto avrei voluto. Non sapevo che cosa sarebbe accaduto quel giorno, non sapevo se ci sarebbe stato modo di recuperare ciò che avevamo perso in quei modi, ma sapevo che la cosa non aveva importanza, non se lui sarebbe comunque stato bene. Terminai di pulire la sua ferita, per poi osservarla meglio, per un momento, cercando di capire se avessi dimenticato qualche punto, per poi andare a prendere degli unguenti e cospargere la parte lesa in modo che aiutassero la sua rigenerazione. -Dovresti mangiare per riprenderti meglio, ma suppongo che non mi darai retta. – dissi, per poi lasciarmi andare ad un leggero sospiro, allontanandomi un po’ da lui. Voleva tornare a casa ed ero quasi certa che in quel momento quello fosse il suo unico pensiero, l’unica cosa che gli interessasse. Chiusi gli occhi per un momento, cercando di mantenere la calma e di riflettere con lucidità nonostante la cosa non fosse poi così semplice in quel momento. Eppure un modo per riportarlo a casa doveva esserci. Riaprii piano gli occhi, rivolgendo di nuovo lo sguardo nella sua direzione. -Ti riporterò a casa, ma devi promettermi che starai attento e che starai a riposo, che ti farai aiutare da qualcuno. – gli dissi, serissima, guardandolo dritto negli occhi, senza però aspettare una risposta per quanto avevo appena detto. -Devo andare a cercare una persona, non posso portarti fuori di qui da sola, stai fermo qui e non muoverti, torno in pochi minuti e poi ti porterò via. – dissi, sebbene l’idea non mi andasse troppo a genio, ma dopotutto chi ero io per decidere per lui?
    Uscii in fretta da quella stanza, senza aspettare di sapere se lui aveva qualcosa da dirmi, se aveva qualche obiezione da fare. Voleva tornare a casa e per farlo avrebbe dovuto lasciarmi fare il mio lavoro. Mi mossi in fretta, andando verso la parte del castello dove sapevo che avrei incontrato uno dei personaggi che meno mi andavano a genio del castello, ma sapevo che era fedele a Nik, più o meno quanto lo ero io ed era per questo che in qualche modo ci rispettavamo. Ignorai i suoi commenti e il suo linguaggio scurrile, non era la giornata adatta per rispondere alle sue battute e dare retta alla sua vena demoniaca. Gli dissi soltanto che mi serviva una mano per una cosa, che dovevo portare qualcuno fuori dal castello e che avevo bisogno che nessuno lo scoprisse, non per il momento almeno. Chiaramente gli dissi che avrebbe potuto farne parola con il principe se fosse servito, ma soltanto con lui. Dovette comprendere dal mio sguardo che doveva essere una cosa piuttosto seria e che non avevo alcuna voglia di scherzare perché non oppose troppa resistenza e mi seguì abbastanza in fretta. -Mi serve che tu mi aiuti a portarlo fino alla zona più lontana del parco, al resto penserò io. E ti dovrò un favore. – dissi, giusto perché sapevo che in questo modo sarebbe stato decisamente più felice di aiutarmi. Lo vidi infatti sorridere, con quel sorriso storto e per niente raccomandabile che solo sapeva rivolgermi, per poi seguirmi dentro la stanza adibita ad infermeria. Vidi il demone corrucciare la fronte quando notò la guardia reale, per poi rivolgermi una leggera occhiata. -Non dirò a nessuno che mi hai aiutato e mi assumerò tutte le responsabilità. – replicai velocemente, prima che lui potesse dirmi qualunque cosa e allora annuì, utilizzando il suo potere e duplicando la sua persona. -Devo solo aiutarti a trascinarlo fuori ed evitare che qualcuno entri qui dentro per un po’? – chiese, mentre ci avvicinavamo al lettino e io annuii lentamente. -Johnny ti aiuto ad alzarti, non sarà semplice, ma ti riporto a casa ok? – dissi, sperando che la sola idea potesse aiutarlo a ritrovare un po’ di forze e la voglia di darmi una mano con tutta quella faccenda. Lo aiutai a tirarsi su e a rimettersi in piedi, stando ai suoi tempi e cercando di non fargli troppo male o di non fargli fare troppa forza, facendomi aiutare dal demone per farlo uscire dalla stanza e raggiungere l’uscita passando da alcune vie secondarie ed evitando così la porta d’ingresso. Colsi gli sguardi del demone ma cercai di evitarli, sapevo che mi avrebbe riempita di domande appena ne avesse avuta l’occasione, ma per fortuna stava avendo la decenza di trattenersi. Facemmo tutta la strada nel più completo silenzio e anche quando fummo finalmente all’esterno non riuscii ad emettere un fiato, fino a che Mark non ci salutò, lasciandoci in una zona abbastanza distante del castello.
    Cercai di far appoggiare meglio Johnny alla mia spalla, per non farlo camminare da solo e solo allora mi decisi a rivolgergli di nuovo la parola. -Devi indicarmi la strada, non sono mai stata a casa tua, non so dove dobbiamo andare. – iniziai, leggermente titubante, guardandolo negli occhi abbastanza lungo, forse troppo a lungo. -Pensi di farcela? – chiesi ancora, ora leggermente più preoccupata. Speravo che si ricordasse che strada dovessimo prendere, nonostante le sue condizioni non fossero le migliori, altrimenti avrei dovuto trovare un’altra soluzione e avremmo dovuto rimandare di qualche tempo il suo ritorno a casa.

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    Jonathan Mansfield » Lycan
    In quelle condizioni il licantropo non era in grado nemmeno di badare alla freddezza dell’amica di un tempo. Triste a dirsi, ma il suo ultimo pensiero riguardava quello che poteva pensare Margareth di lui: Jonathan voleva semplicemente liberarsi di quel dolore lancinante; era come se un’infinità di pugnali lo stessero trafiggendo, lasciandogli una sensazione di carne bruciante. Margareth iniziò a pulirgli la ferita e il giovane non provò nemmeno a trattenersi: i gemiti e i lamenti venivano spezzato solamente dal fiato che gli veniva meno, era evidente che il cuore stesse battendo all’impazzata e che i polmoni stentassero a mantenere il ritmo. Jonathan tratteneva le lenzuola con le mani, impedendosi di muoversi, o almeno tentandoci. La sua muscolatura ora era ben visibile, a causa di quella magrezza che non lo aveva mai contraddistinto. Non che Jonathan non fosse mai stato in forma, tuttavia era evidente che fosse un ragazzo in salute e in carne. Aveva passato giorni interi senza cibo e con acqua appena sufficiente in quella missione. Più volte le sue gambe forti, che erano in grado di reggere una corsa estrema con i caprioli, avevano ceduto sotto il suo peso o sotto il peso di un compagno morente portato sulle spalle. Non vi era avvezzo, in quel momento il suo orgoglio urlava, un orgoglio che non aveva mai fatto parte del suo carattere gioviale e sereno. Essere sofferente ed inerme davanti a Margareth, adesso, non faceva altro che peggiorare il suo stato, lui che l’aveva sempre scortata in giro e protetta. Non ci aveva mai pensato a questo, non si era mai ridotto a questa estrema debolezza. Solo Aleera lo aveva visto piangere come un bambino, tuttavia, anche in quel caso, l’orgoglio non aveva mai alzato la voce: perché ora sì? Perché gli veniva così difficile accettare di essere sotto le cure della strega? Perché sentiva di essere così diverso dai mesi prima? Il ricordo di lui che tentava di leggere gli sembrava terribilmente lontano, gli sembrava di vedere nei suoi ricordi un altro Jonathan. Lui non era più così. Tirò finalmente un sospiro di sollievo quando Margareth finì di curarlo, sentiva lentamente il suo corpo reagire alla mancanza dello strozzalupo e rigenerarsi. Chiuse per un momento gli occhi, prendendo dei respiri profondi e calmando quel cuore impazzito. Sentiva ancora l’adrenalina scorrergli in corpo: sì, avrebbe dovuto mangiare, eppure nella sua testa l’unico pensiero ricorrente era quello della sua casa. Strinse le mani nei pugni più volte, cercando di valutare quanto fosse in forze: nonostante la rigenerazione in corso, avrebbe avuto bisogno di una notte intera di sonno per riprendersi totalmente, fisicamente. Ma chissà quante notti ora avrebbe passato tranquillo? Jonathan non osava tenere gli occhi chiusi per troppo tempo, poiché le immagini di quella missione disastrosa sarebbero presto ricomparse. Scosse il capo quando Margareth affermò che avrebbe dovuto mangiare: aveva ragione, non le avrebbe dato ascolto. Il licantropo fece una smorfia a quelle condizioni, ma alla fine annuii, sapendo quanto stesse mettendo in pericolo la ragazza. Avrebbe perso anche lei? Stava minacciando la sua vita? Avrebbe voluto dirle di andarsene, di non badare a lui, tuttavia Margareth non attese alcuna sua risposta e sparì, intimandogli di rimanere in quel posto. Jonathan tentò di rimettersi in piedi, ma ogni movimento ancora era accompagnato da delle fitte allucinanti. Riuscì solamente a mettersi seduto e quel solo gesto gli portò via tutte le poche forze che aveva riacquistato. Non si era mai sentito così, non aveva mai provato a tal punto gli effetti dello strozzalupo. Attese, fino a quando Margareth non arrivò accompagnata da un ragazzo che non aveva mai visto. Corrugò appena la fronte, ma Margareth sembrava sicura di quello che stava facendo. Si lasciò scortare all’esterno Chi è? sussurrò senza fiato, con un tono allarmato, guardingo, anche se fisicamente era costretto a farsi trascinare dallo sconosciuto. Cercava di mettere tutto il suo peso su di lui e di alleggerire il più possibile Margareth: non voleva caricarla col suo corpo, che da quel momento in avanti non era pesante solo fisicamente, ma portava addosso anche il peso di troppe vite, di intrighi che la sua ingenuità non aveva saputo cogliere fin dall’inizio. Jonathan si era semplicemente limitato ad eseguire gli ordini, scortando quel gruppo di uomini: era cresciuto d’improvviso, si era imbattuto nella crudeltà e nell’indifferenza dei propri capi. Uscirono e si allontanarono di soppiatto, districandosi nella vastità dei giardini di palazzo. Quando furono abbastanza lontani, il giovane se ne andò, senza dire nulla. Non sapeva se ringraziarlo o meno, ma ad ogni modo dalle sue labbra uscì semplicemente un grugnito sofferente. Jonathan prese un respiro profondo, fino a quando Margareth non si rivolse a lui. Di qui sussurrò, iniziando a tirarla, sebbene lei lo sorreggesse. Mano a mano che i tempo passava, il suo corpo riprendeva un po’ di forze e Jonathan cercava di allontanare il proprio peso da Margareth. Non era in grado di sorreggerlo da sola. Ci volle decisamente troppo tempo per arrivare, tuttavia infine raggiunsero una piccola casetta in legno, con i ciocchi pronti da ardere durante l’inverno all’esterno. Si fermò un attimo a guardarla e gli sembrava allo stesso tempo un rifugio e una prigione. Esitò appena prima di avvicinarsi, ma infine si fece aiutare a raggiungere la porta. La aprì e tutto era in ordine come aveva lasciato, prima di partire. Quanto tempo era passato? Mesi? Solamente la polvere regnava sui mobili semplici, sempre in legno, decorati da lui. La sua umile dimora era composta semplicemente da una cucina, con un tavolo ed una stanza da letto. Una volta dentro Jonathan si immobilizzò, fissando ogni dettaglio attorno a sé. Sembrava esseri estraniato completamente. Anche Margareth era quasi un ornamento provvisorio: inevitabilmente nei suoi occhi si mescolava il colore del legno al colore del sangue, non riusciva a distinguere la realtà dall’immaginazione. Era lì, fermo, con lo sguardo fisso. E il cuore in sospensione.


    Ci sono delle persone che nascono
    con la tragedia nel sangue

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    Margareth E. Hamvik » witch
    Avere a che fare con Jonny in quel modo, lontana dalla solita leggerezza che aveva sempre accompagnato i nostri incontri e che era sempre riuscita a farmi sorridere, non era semplice, nulla di tutta quella situazione lo era, eppure non potevo permettermi di pensare a me stessa, di impormi per sapere e per capire quando davanti a me avevo una persona ferita che non sembrava volersi riprendere come avrebbe dovuto. Avrei voluto avere l’egoismo di arrabbiarmi con lui e di costringerlo a riportare le cose com’erano prima che lui partisse, ma non potevo, non quando io ero ormai incredibilmente cambiata dall’ultima volta che ci eravamo visti, tanto da renderci ormai quasi completamente incompatibili. Come potevo chiedere a lui di essere come prima, di dimenticare ogni cosa gli fosse capitata in quei mesi, se io per prima non avrei mai potuto farlo? Avevo pensato di poterlo fare, di poter rimanere la stessa persona anche se mi fossi immersa completamente in quella magia che aveva un che di sbagliato, ci avevo creduto davvero, ma più i giorni passavano e più mi rendevo conto di quanto mi stessi allontanando dalla persona che ero e che probabilmente non ci sarebbe più stato alcun modo di tornare indietro. E allora era davvero giusto da parte mai pretendere qualcosa di diverso da lui? cercare di riavvicinarlo, di recuperare l’amicizia che c’era stata di noi, quando forse non sarebbe comunque potuta durare ancora a lungo? No, non lo era, e più lo guardavo e più mi rendevo conto che avrei dovuto lasciarlo andare, che avrei dovuto approfittare di quel momento per metterlo al sicuro, perché probabilmente non ne avrei avuto un altro. L’unico rumore a spezzare il silenzio pesante che si era venuto a creare erano i suoi lamenti, che vibrarono nell’aria, facendomi sentire in colpa perché ne ero in parte responsabile, ma allo stesso tempo riuscirono a convincermi più a fondo della mia decisione. Perché se qualcuno al castello era riuscito a fargli questo, allora che cosa gli sarebbe potuto accadere se qualcuno avesse capito che cosa io stavo facendo e avesse approfittato della nostra amicizia? No, non potevo permetterlo, non volevopermetterlo. Dovevo portarlo lontano da lì e poi offrirgli una possibilità di ricominciare, senza però essere compresa in quella nuova vita perché soltanto così avrei davvero potuto aiutarlo e impedire che qualcosa di peggio potesse accadergli.
    Non sarebbe stato semplice evitarlo, distruggere ogni legame ci fosse stato tra di noi, ma in fondo quello che era appena successo non dimostrava forse che, in fondo, era già successo? Annuii piano quando si rifiutò di mangiare, esattamente come mi ero aspettata, per poi lasciarlo solo, per qualche minuto, andando alla ricerca di qualcuno che potesse darmi una mano. Quando tornai in quella stanza, accompagnata da Morgan, lo trovai seduto sul lettino, pronto a rivolgermi un’occhiata non troppo convinta quando lo vide. Mi chiese chi era ma io scossi piano la testa. -Non ti preoccupare, è tutto a posto. – dissi, in risposta al suo tono allarmato, senza tuttavia dargli un nome. Il licantropo non si oppose e gliene fui grata perché era già abbastanza complicato sapere di avere un debito con Morgan e avere una chiara idea di che cosa avrebbe potuto chiedermi, non avevo davvero la forza di convincerlo a collaborare. Mi accorsi del suo tentativo di poggiare tutto il peso sul demone, ma non riuscii comunque a lasciarmi sfuggire un sorriso di fronte a quelle piccole attenzioni. Forse ancora teneva a me, forse ancora in fondo mi voleva bene e non era tutto perduto, ma non era davvero il momento di pensarci. E non dissi molto neanche quando il demone ci lasciò da soli, rivolgendogli un semplice cenno del capo mentre Jonathan gli rivolse semplicemente un verso sofferente. Presi un profondo respiro, cercando di aiutarlo a raggiungere la sua casa, facendomi indicare da lui la direzione e soltanto quando fummo finalmente di fronte ad una piccola casetta di legno, tranquilla e solitaria, che ci fermammo un momento. Doveva essere quella casa sua. Il pensiero che, forse, se non fosse stato quell’improvvisa necessità, non avrei mai avuto modo di vederla, mi ferì la mente come uno schiaffo in pieno viso e mi sentii come se fosse terribilmente sbagliato che io fossi lì in quel momento. la mia testa mi urlava di andare via, ma non lo feci, aiutandolo a varcare la soglia e dandogli un momento per guardarsi attorno, per ritrovare un luogo che doveva essergli mancato in tutto quel tempo e che forse era anche un po’ difficile da ritrovare. Vidi il suo sguardo perdersi chissà dove e rimasi in silenzio, per qualche momento, cercando di lasciargli tutto lo spazio che mi fu possibile, fino a quando sostenere il suo peso non divenne decisamente troppo difficile. -Ti aiuto a sdraiarti. – dissi, a quel punto, per poi deglutire a fatica in preda ad una certa agitazione, a quel pensiero fisso che mi diceva che avrei dovuto lasciarlo in pace ora. mossi qualche passo con lui, aiutandosi ad adagiarsi sul letto e soltanto quando lo ebbi fatto spostai lo sguardo da lui, puntandolo verso il pavimento. Penso di dover andare ora. C’è qualcuno che posso chiamare? Qualcuno che possa aiutarti? Qualcuno che vuoi qui? – chiesi, e dire a voce alta quell’ultima domanda mi fece più male di qualunque altra cosa. Perché forse qualche mese prima avrebbe potuto volere me lì, ma ora ero abbastanza certa che non fosse più così, per quanto la cosa potesse ferirmi e farmi stare male. Sentivo le mani tremare per l’agitazione, ma cercai di non pensarci, di ricacciare indietro tutte quelle sensazioni che stavo provando e di pensare solo e soltanto lui. -Non devi preoccuparti, non dirà niente, gli dovrò un favore per questo ma… è tutto a posto. – dissi, di nuovo, cercando di far sembrare abbastanza ferme le mie parole, cercando non di far nascere alcun dubbio o preoccupazione in lui. L’idea di dover trascorrere un’intera serata con Morgan non mi riempiva di gioia, ma se era questo il prezzo da pagare per essere certa che fosse al sicuro, lo avrei pagato senza fare troppe storie. -Prenditi il tempo che ti serve, cercherò di coprirti come possibile, io… mi inventerò qualcosa. – dissi, anche se neppure io ancora sapevo che cosa mi sarei potuta inventare per motivare l’assenza di una guardia reale. -E, Jonathan… – dissi, interrompendo quella frase a metà, dovendo fare un certo sforzo per pronunciare tutto il suo nome e non fermarmi al diminutivo che avevo sempre usato con lui. Eppure che sentivo che era così che avrei dovuto chiamarlo ora, che si era eretto un muro tra di noi che non avrei più potuto oltrepassare. -Mi dispiace, per qualunque cosa sia successo. E so che questo non può cambiare le cose né cancellarle, ma… mi dispiace, davvero. – dissi, riportando lo sguardo sul suo e cercando di fargli comprendere quanto fossi seria e sincera in quel momento. Rimasi a guardarlo a quel punto, in silenzio, aspettando di ricevere da lui un nome, di sapere nelle mani di chi avrei potuto lasciarlo per poter stare tranquilla. Tutta la determinazione che avevo mostrato nel portarlo via dal castello era lentamente scemata, lasciando il posto all’agitazione, alla tristezza che provavo in quel momento che aveva il sapore amaro di un addio.

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    Jonathan Mansfield » Lycan
    Lo sentiva il gelo nel suo cuore: non tristezza, non gioia, non entusiasmo. Il gelo. Si guardava attorno e non provava nulla, a parte il dolore fisico. Non aveva mai provato quella sensazione, nemmeno durante i suoi periodi più bui, quando il ricordo del padre lo opprimeva. In quei momenti sapeva perfettamente cosa stava provando: rimorso, tristezza, senso di abbandono. Per quanto facesse male, era perfettamente consapevole di cosa stesse provando. Ora, invece, il licantropo si ritrovava in una situazione in cui ogni certezza veniva meno. La fiducia verso il prossimo, la fedeltà verso la corona. In cosa doveva credere? Doveva credere a quell’amica che stava rischiando molto per portarlo via? Doveva credere ad Aleera e a Geneva, probabilmente ignare di tutto quello che era successo? Jonathan sentiva il vuoto dentro di sé, i suoi occhi rivedevano chiaramente i momenti peggiori di quella missione, il suo olfatto recuperava l’odore del sangue dei compagni, la sua pelle e la sua carne percepivano ancora gli effetti dello strozzalupo. I suoi sensi erano attivi, guardinghi: il suo cuore più distante che mai. La luce dai suoi occhi era scomparsa, c’era il cielo azzurro una volta sul volto di Jonathan; ora vi si leggeva solamente tempesta e oscurità. Cercò in tutti i modi di non intralciare la strega, si caricava a fatica del proprio peso, perché consapevole che Margareth non sarebbe mai riuscita a trasportarlo da sola. Era esile, indifesa all’apparenza. Anche lei era mutata nel tempo: prima che Jonathan partisse, avevano fatto quasi finta di nulla. Avevano continuato la loro vita ed il loro rapporto come tutti i giorni, ma Jonathan percepiva che qualcosa stava cambiando. Non le aveva mai chiesto nulla, pensando di avere tutto il tempo del mondo. Infondo era un licantropo, cosa era il trascorrere del tempo per lui? Per quanto non fosse immortale come i vampiri, alla fine anche queste creature potevano vantare di raggiungere un quasi eternità. Il loro rapporto era basato sul “non forzare”: prima o poi le cose venivano fuori da sé, naturalmente. Ora si rendeva conto che forse avrebbe dovuto interessarsi maggiormente a lei. Nonostante molte volte, in gioventù, Jonathan avesse tentato di togliersi la vita, mai come questa volta era andato così vicino alla morte. No, non c’era tempo. Inoltre.. Forse non c’era più tempo nemmeno per loro. In quel momento non sapeva cosa dirle, cosa fare. Lo stava aiutando e lui era inerme. Arrivarono finalmente alla sua casa, Jonathan non sapeva se trovare finalmente conforto o se considerarla un nuova prigione. Tutto era confuso, tutto era crollato sotto i suoi piedi. Non c’era nessuna certezza: forse qualcuno li stava aspettando, magari avrebbero tentato di farlo fuori definitivamente ed in mezzo ci sarebbe finita anche la strega. La sua fantasia era fuori controllo. Entrarono e non c’era nessuno. Tirò un sospiro di sollievo, tuttavia non riusciva ad ambientarsi. Si sentiva estraneo. Quella non era la sua casa: quella era la casa di un altro Jonathan. Era la casa del Jonathan semplice, spensierato: la semplicità del carattere di quel Jonathan la si poteva osservare in ogni ingenuo dettaglio negli intagli di alcuni mobili, fatti da lui. Dall’esterno appariva umile e accogliente, rustica: per l’attuale Jonathan c’era qualcosa che stonava. Si era perso in quella osservazione meticolosa, in realtà molto offuscata. Si ridestò solamente quando Margareth gli disse che lo avrebbe adagiato a letto: annuii senza trasposto, seguendola e stendendosi su quel letto semplice, poco comodo ai più. Digrignò i denti dal dolore: adesso che era sdraiato, sentii la stanchezza piombargli addosso. Continuò a guardarsi in giro perso, in guardia, fino a quando non prestò finalmente attenzione alla strega. Gli domandò se dovesse chiamare qualcuno. In quel momento Jonathan si rese conto che sarebbe rimasto solo, lì. Per un istante guardò la strega con gli occhi di un cucciolo spaventato, privo di qualsiasi punto di riferimento. In un certo senso era lo sguardo di Jonny. N-non andare. disse, deglutendo. Tentò di rimettersi seduto, tremante. Non andare sussurrò. Strinse le mani sulle coperte, cercando di celare il tremore che lo colse: forse stanchezza, ma soprattutto paura. Distolse lo sguardo dalla ragazza, non volendo che lo vedesse in quello stato. Sentiva il cuore accelerare sempre di più. Mi dispiace.. Mi dispiace.. iniziò a dire, quasi in un delirio. Il licantropo sentiva freddo, ma ben presto la sua fronte iniziò a bagnarsi di goccioline di sudore, segno che gli stava salendo la febbre. Continuava a stringere quelle coperte, facendo diventare bianche le nocche e le dita per la forza che ci stava imprimendo. Il tremito divenne più evidente in tutto il corpo, sentiva gli occhi in fiamme e li serrò più di una volta. Perché.. continuava a chiedersi, in preda a quello stato fuori controllo. Ogni rumore proveniente dall’esterno lo faceva sussultare e lo metteva in allarme. La sua gola pulsava da quanto il cuore stava impazzendo.


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    Margareth E. Hamvik » witch
    Non era stato semplice guardare Jonathan per la prima volta, dopo mesi, e vedere in lui un estraneo. Era stato uno dei miei primi amici al castello, uno dei pochi, uno di quelli che pensavo non se ne sarebbero mai andati e che sarebbero sempre stati lì, qualcuno su cui avrei sempre potuto contare. Guardandolo ora invece non riuscivo più a ritrovare l'amico, compagno di tante giornate e di tante promesse, vedevo solo qualcuno che non riuscivo a riconoscere, qualcuno che si era fatto troppo lontano perché io potessi afferrarlo e stringerlo di nuovo. Mi erano mancati i suoi abbracci, mi era mancato il suo calore, la sua allegria, mi era mancato tutto di lui e avrebbe continuato a farlo. Perché non c'era più traccia del ragazzo spensierato a cui volevo bene negli occhi del licantropo che era tornato indietro da quella missione, qualcuno che aveva eretto tra noi un muro che non mi sarei azzardata ad attraversare. Mi spezzava il cuore vederlo in quello stato, ma sapevo che non avrei potuto fare altro che soddisfare quelle che erano state le sue richieste: portarlo via dal castello, portarlo a casa. Non ero mai stata a casa sua in precedenza, non sapevo come raggiungerla e sapevo che non sarebbe stato un posto in cui mi sarei potuta muovere liberamente, come il castello. A palazzo avrei potuto prendermi cura di lui, avrei potuto occuparmi personalmente delle sue ferite, ma quella sua richiesta mi aveva fatto capire che probabilmente non era quello che voleva. Dopotutto al suo ritorno non mi aveva neanche fatto sapere di essere di nuovo a Londra. Con quei pensieri lo accompagnai verso la piccola casetta nella foresta che doveva essere la sua casa che in ogni suo più piccolo aspetto non faceva che ricordarmi il ragazzino che avevo salutato qualche mese prima. Mi sembrava di rivederlo in tutti quei dettagli, di vedere ancora lo stesso Jonny lì dentro, ma vederlo così spesato al suo interno mi fece capire che per lui non doveva essere lo stesso. Lo aiutai a sdraiarsi sul letto, così che potesse decidere di riposarsi un po’, probabilmente si sarebbe sentito più comodo e al sicuro lontano dal castello, lontano da tutti quegli sguardi che non ti lasciavano mai andare. Lo guardai con aria leggermente confusa quando mi chiese di resta lì, con lui, e di non andare via. Mi aveva dato un’impressione molto diversa in quelle ultime ore e non riuscivo più a comprendere che cosa stesse succedendo.
    Lo ripeté di nuovo, tentando di rimettersi seduto mentre il suo cuore continuava a tremare per la stanchezza. -Ehi, sta calmo. – dissi, mentre la mia voce si addolciva un po’ e mi riavvicinavo di qualche passo a lui, per cercare di convincerlo a rimettersi sdraiato mentre lui iniziava a scusarsi per qualcosa che non riuscivo a capire. -Non c’è niente di cui devi dispiacerti. – dissi allora, con un leggero sorriso sul volto, mentre lui continuava a stringere le coperte, sussultando ad ogni rumore proveniente dall’esterno. Mi sedetti sul suo letto per qualche momento, per poterlo guardare meglio in volto, posando delicatamente una mano sopra una delle sue. -Cerca di stare tranquillo, nessuno ti farà del male qui. – dissi, e c’era una convinzione un po’ seria in quelle parole, perché ora che era tornato a Londra, nonostante tutto, non avrei permesso a nessun altro di ferirlo. -Ti rimetterai presto, ora inizierai a guarire. – continuai, stringendo la sua mano con appena più forza, in un gesto istintivo che non riuscii a controllare. -Ti sta salendo la febbre, ma è normale, scenderà in qualche giorno, posso prepararti qualcosa per aiutarti a farla passare prima se vuoi. – mormorai, cercando di nuovo i suoi occhi a quel punto, perché non sapevo se davvero volesse il mio aiuto in quel modo. Mi sentivo quasi come se fossimo tornati ad essere degli estranei e a quel pensiero allontanai lentamente la mia mano dalla sua, rimettendo quella breve distanza che credevo fosse più consona tra di noi a quel punto. Qualche mese prima non mi sarei messa alcun problema ad abbracciarlo, e lui avrebbe fatto lo stesso, ma con il Jonny che era tornato dalla missione non sapevo più come mi sarei dovuta comportare, mi sarebbe servito del tempo per comprenderlo. -Devi cercare di riposare, di dormire, altrimenti la febbre durerà più a lungo. – dissi ancora, con tono un po’ più apprensivo questa volta, sperando che mi desse ascolto e che non si opponesse a quel consiglio. -Io resterò qui per tutto il tempo, te lo prometto. – aggiunsi, sperando che questo lo avrebbe fatto sentire più tranquillo. Non potevo restare troppo a lungo, entro sera sarei dovuta tornare al castello se non volevo avere dei guai, ma ci avrei pensato in seguito. Ora volevo soltanto che lui stesse tranquillo e che cercasse di rimettersi in sesto, perché soltanto così avrebbe potuto decidere che cosa fare. Fino a che fosse stato così debole sarebbe stato troppo esposto, in pericolo, e non volevo che lui lo fosse, volevo che potesse decidere se restare a Londra o andare via, se affrontare di petto tutta quella faccenda o attendere che i pezzi di quella trama si rimettessero a posto da soli. Non potevo decidere per lui, non potevo dirgli che cosa fare, ma potevo aiutarlo a riprendersi e a sentirsi al sicuro, almeno per ora, se lui me lo avesse lasciato fare.

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    Jonathan Mansfield » Lycan
    « Di queste case
    non è rimasto
    che qualche
    brandello di muro

    Di tanti
    che mi corrispondevano
    non è rimasto
    neppure tanto

    Ma nel cuore
    nessuna croce manca

    E' il mio cuore
    il paese più straziato
    »

    Lentamente il suo corpo riprendeva forza, anche se Jonathan si sentiva completamente spossato e privo di energie. Tremava: lui sentiva freddo, ma la sua pelle era bollente. In volto era pallido, ma una mano sulla sua gola o sul suo petto avrebbe potuto percepire un cuore impazzito. Le ferite più superficiali si stavano già rimarginando, tuttavia quelle più intrise di strozzalupo ancora facevano fatica a rimarginarsi. Ci sarebbe voluta tutta la notte, addirittura giorni forse. In quelle condizioni non sarebbe mai riuscito a difendersi da solo e il licantropo lo sapeva bene. Non era uno stupido. Per questo motivo i suoi sensi erano perennemente all’erta: è più attento un lupo ferito, che uno pronto alla corsa. Non riusciva a trovare pace; la sua casetta era al confine con un boschetto e il suo udito sviluppato riusciva a riconoscere quasi ogni foglia spostata dal vento. Aveva sempre convissuto con quelle sensazioni, trovandole addirittura rilassanti: ora anche la natura gli sembrava sua nemica e si sentiva obbligato a proteggersi, ad essere sospettoso. Non riusciva in alcun modo a rilassarsi, anche una volta sdraiato a letto e con Margareth vicina. Annuii quando la strega gli chiese se voleva qualcosa per far passare la febbre. Non so cosa sia rimasto da prima della partenza disse in un sussurro sofferente il licantropo. Non voleva rimanere solo e Margareth era lì, allo stesso tempo sapeva che la giovane sarebbe andata incontro ad un grave pericolo, se avesse continuato ad assisterlo. La osservava, con lo sguardo vacuo e spento, strinse la sua mano quando ella si sedette affianco a lui, per cercare di calmarlo. S-Se rimani con me… Sarai in p-pericolo disse, cercando il contatto con i suoi occhi e agitandosi ulteriormente. Non voglio che ti succeda qualcosa continuò, mordendosi il labbro inferiore. R-Riesci a fare un incantesimo per proteggere la casa? domandò, deglutendo pesantemente. V-Verranno a cercarmi… V-Vorranno finire il lavoro affermò, con le lacrime che iniziarono a sgorgare dagli occhi. Non si poteva dire con certezza se erano dovute alla febbre alta o alla paura. Cercò nuovamente di mettersi seduto, per essere più vicino al volto della ragazza. Il respiro era pesante, difficoltoso. M-Margh… iniziò, cercando di rimanere fermo sui suoi occhi e stringendole ancora la mano. Hanno cercato di farci fuori… L-Loro… Era una missione suicida fin dall’inizio a rievocare quei pensieri strinse maggiormente la mano alla ragazza. V-Vorrei che rimanessi qui… Ma ti verranno a cercare… S-Sta attenta al castello… la sua mano si alzò sul braccio. Era evidente il tremito di tutto il corpo; negli occhi del giovane era facile leggervi la consapevolezza che tutto quello che era successo non era stato un caso, non era stata una semplice disfatta. Promettimelo….. Era troppo stanco in quel momento per meditare ad eventuali congetture: era stato un ordine dei principi? C’era qualcun altro dietro? Appoggiò la fronte sulla spalla della ragazza, esausto: quelle semplici parole, lo stare seduto lo avevano stremato. Non era svenuto, era ancora cosciente, ma il Jonathan instancabile quella sera aveva mancato all’appello. In quel letto c’era solamente un ragazzo scampato per miracolo alla morte, il cui corpo e anima portavano ancora i segni di quella missione. Avrebbe profondamente desiderato che Margareth rimanesse lì tutta la notte, ma era, dentro di sé, consapevole che non era possibile. Margareth.. sussurrava, non si poteva dire se per attirare la sua attenzione o solamente per aggrapparsi ad una figura amica, anche nei pensieri, nelle parole. Lentamente la lucidità precedente venne meno, sostituita nuovamente dai deliri della febbre alta; tuttavia il licantropo non aveva intenzione di abbandonare quella posizione. Ovviamente il suo stato non gli avrebbe permesso di opporre resistenza ad alcuna mossa della strega, ma per il momento il suo unico conforto pareva il suo corpo, il suo profumo, il suo battito del cuore. Cercava di sincronizzarsi al suo battere, per tentare di calmare il proprio. Ogni tanto si perdeva completamente e nella sua testa rimbombava solo quel ritmo. Non riusciva a porre attenzione a più dettagli contemporaneamente, era evidente che fosse spaesato, confuso: era come una marionetta dall’espressione fissa, senza vita.




    Ci sono delle persone che nascono
    con la tragedia nel sangue

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    Il mio sguardo si fermò per qualche altro momento ad osservare il volto di Jonny, contratto per quella nuova fitta di dolore. Le ferite avevano lentamente iniziato a rigenerarsi ma ci sarebbe voluto del ancora tempo perché smettessero di fare male e perché si richiudessero del tutto. Se lo avessi incontrato immediatamente al suo ritorno, se avessi avuto l’occasione di aiutarlo non appena avesse messo piede al castello, ora sarebbe sicuramente stato meglio, ma non era successo e tutto quello che potevo fare ora era cercare di dargli il mio aiuto come meglio potessi, di mettere al suo servizio la mia magia e le mie conoscenze mediche per cercare di riparare ad un danno che altri avevano commesso. Ciò che gli era capitato non era stata colpa mia, non ero stata io ad organizzare quella trappola che aveva costretto alla morte i suoi compagni, eppure in qualche modo me ne sentivo responsabile. Perché forse se fossi stata più attenta, se avessi ascoltato con più attenzione nei corridoi, sarei riuscita a cogliere qualcosa, a capire, a metterlo in guardia prima che tutto quello si compisse. Ma non era successo. Ero stata completamente all’oscuro di tutto fino a che non avevo visto con i miei occhi che quelle streghe non stavano facendo il loro dovere nel curarlo adeguatamente e fino a che lui non mi aveva detto che la sua non era stata altro che una missione suicida. Come avevo potuto non vedere? Come avevo fatto a non accorgermi? E ora come avrei fatto ad andare avanti allo stesso modo nel castello dopo che avevo saputo che cosa erano stati in grado di fare? Nik era in qualche modo coinvolto? Erano tante le domande che mi assalivano la mente in quel momento, ma mi sforzai di rimandarle tutte indietro perché non era questo l’importante ora, Jonny doveva riprendersi, doveva rimettersi in forze il prima possibile così che potesse essere di nuovo in grado di difendersi da solo.
    Annuii quando mi disse che non sapeva che cosa fosse rimasto in casa dalla sua partenza, guardandomi attorno per cercare di comprendere cosa avrei potuto fare con il poco a disposizione. Forse avrei dovuto impormi e farlo restare al castello, lì dove c’erano tutte le mie riserve di erbe e pozioni e dove avrei potuto curarlo meglio ma sapevo bene che sarebbe stato chiedere troppo da parte mia, soprattutto in una situazione rischiosa come quella. Era più sicuro per lui stare lì, lontano da chi avrebbe potuto fargli ancora del male, ma nulla poteva assicurarci che non si sarebbero spinti sin lì per completare il lavoro. Doveva essere perfettamente cosciente del pericolo anche lui perché, quando mi sedetti al suo fianco, dopo aver compiuto le prime medicazioni, mi disse che se fossi rimasta lì con lui sarei stata in pericolo e che lui non voleva che mi accadesse qualcosa. Una vaga sensazione di calore mi pervase il corpo a quel punto perché il fatto che lui tenesse ancora a me, che si preoccupasse per me, voleva dire forse che non tutto era cambiato in maniera così grave. Scossi appena il capo, rivolgendogli un leggero sorriso e stringendo maggiormente la sua mano per cercare di rassicurarlo. -Non pensare a me ora.- dissi, perché non volevo davvero che si preoccupasse. Sapevo perfettamente quanto fosse pericoloso, ma non mi importava. Annuii di nuovo però quando mi chiese se potessi usare la mia magia per rendere la sua casa un posto più sicuro dato che temeva che venissero a cercarlo. Vedere quelle lacrime sul suo volto mi strinsero il cuore, tanto da spingermi ad allungare lentamente una mano sul suo volto per asciugarle, prima di depositargli un piccolo bacio sulla fronte e poi tornare a guardarlo negli occhi. -Non permetterò a nessuno di farti di nuovo del male. – dissi e c’era una serietà profonda in quelle parole, forse persino qualcosa di oscuro che vibrava nel profondo del mio petto al solo pensiero che qualcuno potesse cercare di fargli del male proprio lì, a Londra, troppo vicino a me perché io potessi evitare di sentirmi in colpa. Lasciai andare il suo viso quindi, alzandomi per qualche momento, giusto il tempo di pronunciare l’incantesimo che avrebbe tenuto all’esterno della casa chiunque, a meno che non fosse stato Jonny ad aprire la porta o invitarli a farlo. Con un po’ di impegno uno stregone potente sarebbe riuscito ad abbassare quelle difese, ma speravo che non si sarebbero presi tanta briga, non per il momento almeno. Gli stregoni al servizio della corona erano di norma a caccia di ribelli, sarebbe stato sin troppo sospetto chiedere loro di cercare una guardia reale senza un particolare motivo.
    Gli rivolsi un’occhiata apprensiva quando cercò di mettersi seduto, stringendomi la mano e guardandomi negli occhi mentre mi diceva che avevano cercato di ucciderli e che avrebbe voluto che io restassi con lui, ma che sarebbero venuti a cercarmi al castello e mi chiese di promettergli che sarei stata attenta al castello. Annuii, sapevo perfettamente che aveva ragione, potevo capire la gravità e la pericolosità della situazione, ma c’era la sua vita in ballo e per questo non mi sarei tirata indietro per nessun motivo. -Starò attenta, non preoccuparti. – dissi, con una voce che però suonò molto più dolce, quasi una carezza, cercando di tranquillizzarlo. Non volevo che pensasse a quello, la sua priorità doveva essere quella di rimettersi in piedi. Posò la testa sulla mia spalla e a quel punto lo strinsi appena, tra le mie braccia, evitando di stringere troppo per non fargli male. In qualunque altro momento non mi sarei posta quel pensiero, ben consapevole che la sua forza fosse superiore alla mia, ma ora era ferito e mi sembrava così fragile e indifeso che sentivo di doverlo proteggere, a tutti i costi. -Sono qui Jonny. – sussurrai piano, al suo orecchio, quando sussurrò il mio nome in maniera quasi assente, stanca. -Hai bisogno di dormire, sarò qui quando ti sveglierai, nessuno potrà farti del male sino a che io sarò qui. – dissi, dandogli un leggero bacio sulla fronte, prima di aiutarlo a sdraiarsi meglio sul letto, così che potesse cercare di dormire. In quel momento era l’unica cosa che potesse fare per velocizzare il suo processo di guarigione. Lasciai che una delle mie mani rimanesse stretta alla sua, così che capisse che ero davvero lì e che non sarei andata via, non sino al mattino seguente.
    Quello che gli era successo mi aveva turbata non poco e avevo la necessità di trovare una risposta a tutte quelle domande che mi affollavano la testa, anche se probabilmente non sarebbe stato così semplice. Non potevo andare dal principe e chiedergli senza mezzi termini se era stato lui ad organizzare quel delitto, non se non fosse stato lui ad accennare al fatto per primo. Eppure avevo bisogno di sapere chi fosse coinvolto, da chi avremmo dovuto guardarci le spalle, perché per nessun motivo al mondo avrei lasciato che il licantropo affrontasse tutto da solo. Sorrisi leggermente nel vederlo lentamente scivolare nel sonno, anche se probabilmente sarebbe stato agitato e non privo di incubi. Mormorai un breve incantesimo che gli avrebbe permesso di dormire sogni più quieti e rimasi lì, a guardarlo, a vegliare su di lui per tutta la notte, chiudendo gli occhi di tanto in tanto per la stanchezza. Il suo ritorno mi aveva resa felice, ma ci era voluto poco perché tutto cambiasse e perché nuovi problemi sorgessero entro le mura spesse del castello. Lo guardai ancora, approfittando del suo sonno per soffermarmi su alcuni dettagli del suo volto. Quei pochi mesi sembravano averlo cambiato e cresciuto più di quanto pensassi.
    Sorrisi di nuovo quando lo vidi lentamente riprendere conoscenza. -Ben svegliato, come ti senti oggi? – chiesi, probabilmente sempre con sin troppa apprensione. -Posso prepararti qualcosa da mangiare? – chiesi, ancora, dandomi una leggera occhiata intorno per capire che cosa avrei potuto rimediare in poco tempo. -Tra qualche ora dovrò necessariamente tornare al castello, tu te la senti di stare da solo? Vuoi che ti accompagni da qualche altra parte? – continuai, ben decisa a cercare di sistemare quanto più possibile prima di doverlo lasciare da solo per qualche ora.

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