Pieces of time, pieces of memories

x Adam

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    Elizabeth "Samantha" Montgomery » human
    La mia vita, da qualche mese a questa parte era radicalmente cambiata. Avevo pensato di essere finalmente giunta ad una soluzione, di aver trovato un compresso, la mia nuova strada, di potermi concedere un po’ di tranquillità, ma purtroppo così non era. Per mesi avevo visto il castello come un porto sicuro, un luogo dove potermi sentire a mio agio nonostante fossi circondata dai vampiri più pericolosi del momento. Julian mi aveva salvato la vita, me ne aveva donata una nuova e io avevo pensato che questo potesse bastare, che fosse il simbolo più evidente della sua bontà e mi ero quindi fidata di lui. Avevo creduto di aver trovato un amico, un confidente, qualcuno disposto davvero a proteggermi e a starmi accanto e mi ero abbandonata a quell’idea, lasciando andare completamente le mie difese e beandomi di quella che non era stata altro che un’illusione. Ero stata una sciocca a pensare che lui potesse essere diverso, che le sue parole e sue promesse nei miei confronti potessero davvero valere qualcosa, ma quando l’incanto si era spezzato e avevo potuto finalmente vedere il mondo in maniera chiara con i miei occhi avevo capito. Era stato solo un momento, probabilmente un divertimento e un passatempo per chi, come lui, poteva avere tutta l’eternità davanti e fare qualunque cosa desiderasse. Avevo creduto che fosse sincero, che tenesse davvero a me e invece avevo poi compreso che non era mai stato così. Avevo lasciato che la mia mente vedesse solo ciò che voleva vedere e non ciò che invece avevo sempre avuto davanti agli occhi. Mi ero invaghita di lui e avevo tentato di andare sino in fondo, senza comprendere quanto quei pensieri fossero assurdi e sbagliati e non soltanto perché lui era un principe mentre io in fin dei conti non ero nessuno, ma per qualcosa di molto più profondo e vero. Ed era proprio questa verità che continuava a tormentarmi, giorno dopo giorno. Se in passato il fatto di non sapere nulla sul mio passato era stato solo uno dei tanti pensieri che avevo messo da parte quando il principe aveva iniziato ad occupare tutte le mie giornate, ora la situazione si era completamente ribaltata. Non volevo più stare in quel castello, in quella che era divenuta per me una gabbia oscura e senza via d’uscita, una vita vuota e finta che non mi avrebbe mai dato alcun tipo di giovamento. Volevo uscire, volevo fuggire via, lontano, volevo ritrovare la mia vita, quella vera e sentirmi di nuovo, finalmente, a casa.
    Più facile a dirsi che a farsi considerando che avevo pochissime cose su cui basarmi per andare avanti, troppo poche perché potessero trasformarsi in qualcosa di solido che potessi seguire. Da dove potevo partire se neppure sapevo bene quale fosse il mio nome e chi io fossi? Avevo conosciuto quella ragazza al convento, ma da qualche tempo non ero più riuscita a ritrovarla e anche quella che era sembrata una pista decisiva mi aveva lasciata con in mano soltanto un pugno di mosche e ancora più confusione di prima. Chi era Samantha? Era possibile che fossi davvero io? E allora chi era davvero Elizabeth e perché portavo un ciondolo con il suo nome al collo? Domande e solo domande, sarei mai riuscita ad ottenere qualche risposta? Osservai quel ciondolo, stringendolo forte tra le mani, sperando che qualcosa, qualunque cosa mi tornasse alla mente, senza tuttavia ottenere nulla. Talvolta mi capitava di avere dei piccoli ricordi, brevi istanti, una parola, una sensazione, qualcosa che tornava alla mente senza che io lo comprendessi, pezzi di un mosaico che non ero ancora in grado di ricomporre e che mi lasciavano sempre più perplessa e frastornata. Chi ero stata io in passato? Ma soprattutto, c’era ancora qualcuno ad attendermi là fuori? Non sapevo cosa pensare, né cosa sperare. Se prima avrei desiderato intensamente che così non fosse, sperando che nessuno avesse sofferto della mia assenza, ora non mi era più così semplice pensarlo. Desideravo una via d’uscita, sapere che se mai fossi andata via ci sarebbe stato qualcuno là fuori per me e che non sarei quindi stata sola. Perché era questo a spaventarmi più di ogni altra cosa, il fatto di non avere alcuna memoria e si sentirmi incredibilmente sola e abbandonata. Che cosa avrei potuto fare là fuori se non avevo niente e nessuno? Come avrei fatto a sopravvivere?
    Ed era con questi pensieri per la testa che ero uscita dal castello, diretta per una strana volta verso il mercato di Londra. Non mi ero mai avvicinata molto a quel luogo, trovandomi un po’ a disagio in mezzo a tutta quella gente, ma in quel momento ne avevo sentito quasi la necessità. L’aria del castello si era fatta per me sempre più soffocante e dato che non avevo nessun compito particolare da svolgere avevo deciso di immergermi nella città, di vedere ciò che non ricordavo o che forse non avevo mai conosciuto. Da dove venivo? Dove ero nata? Dove ero cresciuta? Neppure questo ero mai riuscita a ricordare. Una volta avevo avuto modo di risentire la voce calda e limpida di una donna che cantava qualcosa, ma era stato soltanto un momento e non ero stata in grado di comprendere. Mi ero sforzata di lasciarlo da parte, di dimenticare per non sovraccaricare la mente con altre domande, ma negli ultimi tempi era divenuto sempre più difficile. Dopo quello che era accaduto con il principe ogni cosa che sapesse distrarmi da quel gesto sciocco e avventato era divenuta importante e mi ci ero aggrappata con forza, per quanto potesse fare male. Erano finiti i momenti in cui ero stata convinta di potergli affidare la mia vita, di poter sempre contare su di lui e sul suo aiuto e avevo invece capito di poter contare soltanto su me stessa e sulle mie forze e che se non mi fossi impegnata duramente io per ricordare, nessuno mi avrebbe aiutata. Il perché me lo avesse promesso se non lo aveva mai pensato davvero non lo sapevo, ma neppure mi importava più saperlo. Dopo quella notte avevo fatto di tutto per cercare di evitarlo, di non pensare a lui e di mettere tutto quanto da parte, ma neppure questo era stato così semplice come avevo sperato. Avevo desiderato così ardentemente la sua compagnia, qualcuno di cui potermi fidare ciecamente, che scoprire di aver riversato quei sentimenti nei confronti della persona sbagliata mi aveva distrutta. Avevo trascorso un periodo orribile, in cui mi ero allontanata da tutto e da tutti, lasciandomi andare alle lacrime e alla debolezza più totale, ma qualcuno finalmente una mattina avevo aperto gli occhi e lo avevo fatto davvero, ogni cosa era cambiata. Avevo deciso di prendere in mano ogni cosa ed era quello che avrei cercato di fare da quel momento in avanti, non aveva importanza se sarebbe stato difficile, impegnativo, o se sembrava che non avrei mai trovato una soluzione ai miei problemi. Se da qualche parte c’era qualcuno o qualcosa in grado di farmi ricordare, io lo avrei trovato, fosse stata anche l’ultima cosa che avrei fatto.
    Il mio sguardo vagò distrattamente per il mercato, inebriato da tutti quei colori, i sensi completamenti spaesati da tutti quei suoni e quei rumori a cui mi ero completamente disabituata ma che presto, dopo solo brevi istanti, mi fecero sentire di nuovo, finalmente, bene. Da quando avevo cominciato ad allontanarmi dalle persone? Quando avevo iniziato a preferire la compagnia del vampiro a quella dei miei stessi simili? Probabilmente dal momento in cui avevo riaperto gli occhi, su quella riva e il suo volto era stata la prima cosa che avevo visto, ma non sarei più stata così sciocca, mai più. Mi lasciai trascinare dai suoi e dai rumori, camminando piano, quasi distrattamente, tra la folla, senza badare a chi avessi intorno, completamente rapita da quelle bancarelle ricche di ogni cosa, per poi venire compita profondamente da quella apparentemente più semplice. Era piccola e isolata, disposta sul lato destro della strada, leggermente più defilata, lontana dal filo che le altre avevano creato, quasi a volersi nascondere o tenere in disparte. Un uomo anziano si trovava dietro il piccolo bancone, chino su un pezzo di legno che stava intagliando proprio lì, sul momento. Non mi sporsi per vedere che cosa stesse realizzando, i miei occhi si soffermarono sulla figura di un piccolo cavallo di legno e il mio corpo si mosse da solo per avvicinarsi a quel piccolo oggetto. Perché mi stesse attirando così tanto non riuscivo a comprenderlo, ma era come se una parte di me non ne potesse fare a meno.


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    ADAM HARRISON» Umano/Ribelle

    Vuote, le sue giornate scorrevano lente e vuote. Nonostante si impegnasse molto per riempirle di persone e di appuntamenti, ogni singolo giorno sentiva che gli mancava qualcosa, erano anni ormai che non riusciva a togliersi di dosso quella sensazione, da quando la guerra era terminata e gli aveva portato via tutte le persone care. Era rimasto da solo, senza il calore della sua famiglia, l’unica parente che gli era rimasta era Julia, sua cugina, e viveva con lui tra i ribelli. Entrambi appartenevano al gruppo di David, per cui nutrivano profondo rispetto e stima, si erano uniti a lui col termine della guerra, proprio quando avevano perso ogni minima speranza.
    Adam aveva affrontato degli anni bui, andando avanti per inerzia, vivendo perché il suo cuore ancora funzionava. A volte aveva pensato che avrebbe preferito perdere la vita insieme alla sua famiglia per non dover affrontare tutto quel dolore, che era come un buco nero all’altezza del petto che gli risucchiava tutta l’energia e i sentimenti positivi che ancora erano insiti in lui, da qualche parte nel profondo. Poi, però, chi lo circondava gli ripeteva che era stato fortunato, che Dio lo aveva salvato per un motivo, che forse aveva ancora qualche compito da svolgere e che non doveva piangersi addosso, ma reagire e cercare uno scopo per continuare a vivere. Uno scopo lui l’aveva trovato molto in fretta ed era quello che gli permetteva di tirare avanti senza abbattersi: erano stati i vampiri a sterminare la sua famiglia e per questo dentro di lui scorreva un desiderio di vendetta forte e violento, anche per questo motivo si era unito ai ribelli, da solo non avrebbe mai potuto fare la differenza, ma con un gruppo compatto e pronto a tutto avrebbe potuto fare la sua parte per ribaltare non solo le sue sorti, ma anche quelle di molti altri.
    Con la guerra Adam non aveva perso solo la sua famiglia, ma anche alcuni amici e la prima e unica ragazza di cui si fosse mai innamorato, Samantha. Era stato un duro colpo per lui scoprire che, finiti gli anni degli spargimenti di sangue, Samantha era sparita nel nulla. Adam era passato molte volte davanti a quella che una volta era la sua casa, nutrendo la speranza di vederla uscire da quella porta che in realtà non si sarebbe mai aperta. Quante volte era tornato lì e non solo, aveva vagato per Londra per giorni interi alla sua ricerca, senza mangiare e senza bere, domandando a chiunque incontrasse se avessero visto la ragazza che cercava, ma la risposta era sempre la stessa: nessuno l’aveva vista. Ci aveva messo molto ad arrendersi, aveva addirittura temuto che anche lei fosse morta, ma a quello ancora non voleva crederci, forse era stata fatta prigioniera, o forse era scappata in un’altra città… tutto fuorché un'altra perdita definitiva, la sua mente e il suo cuore non lo avrebbero sopportato. Dopo circa un anno e mezzo aveva smesso di chiedere ad ogni singolo passante se aveva incontrato una ragazza corrispondente alla sua descrizione negli ultimi tempi, doveva smettere altrimenti si sarebbe fatto del male da solo e non sarebbe mai andato avanti con la sua vita. Non poteva vivere ancorato ai fantasmi del suo passato, ma ancora adesso, dopo tre lunghi anni da quando la sua vita aveva subito una dura svolta obbligata che lui non desiderava, con lo sguardo cercava il viso di Samantha tra quello dei passanti. Anche in quel momento lo stava facendo, stava camminando nella via affollata di Camden Town e con la coda dell’occhio scrutava tutte le donne che potessero anche solo vagamente somigliare a Samantha: c’era una giovane davanti al banco della frutta che sembrava proprio lei di spalle, i capelli erano della stessa lunghezza di quando l’aveva vista per l’ultima volta tre anni fa, la statura era più o meno giusta, ma quando si girò il viso non era quello che cercava lui. Nonostante ormai fosse cosciente del fatto che era impossibile che lei fosse ancora a Londra, ogni volta rimaneva deluso, perché in fondo ci sperava davvero di poterla rincontrare un giorno.
    Adam si trovava a Camden Town perché doveva fare delle compere per il fabbro presso il quale lavorava come aiutante, aveva un lista di cose da prendere, ma si era fatto distrarre dall’atmosfera spensierata e colorata di quel posto: un uomo dall’aria burbera, vestito in maniera bizzarra, pesava il pesce con le mani, sparando prezzi esorbitanti per poi giocare al ribasso, di modo da farsi pagare lo stesso quanto voleva lui. L’olezzo particolarmente forte del banco del pesce si andava a mescolare con quello dolce e gradevole della frutta che veniva venduta da una signorotta con le guance rosse e l’aria simpatica, poco più in là, creando una miscela strana nell’aria. Qualche metro più avanti un ragazzino sbarbatello gridava ”Venite a vedere il nostro banco, è il più bello del mercato! Ma che dico? Di tutta Londra!”, ma in realtà vendeva tutte cianfrusaglie che spacciava per oggetti di primissima qualità. E ancora a perdita d’occhio c’erano altre decine di bancarelle di ogni genere e di ogni colore, che offrivano merce di ogni tipo e di ogni dove.
    Lo sguardo di Adam si soffermò un banco isolato rispetto agli altri, fuori dalle file quasi simmetriche di bancarelle, c’era un uomo anziano che intagliava una piccola scultura in legno. Un sorriso gli si allargò sulle labbra a quella vista, quando era ragazzino lui e il suo migliore amico (il fratello di Samantha) avevano deciso di costruire una fattoria di animali di legno e avevano chiesto aiuto a suo nonno per imparare a intagliare le più svariate figure; i primi tentativi furono disastrosi, si fecero persino qualche taglio sulle dita per la disattenzione, ma più facevano pratica e più la loro fattoria acquisiva forma e pezzi di buona fattura. Adam aveva prestato più cura e più attenzione alla realizzazione del cavallo, perché era l’animale preferito di Samantha e quando lo finì glielo regalò con sua grande sorpresa. Erano piccoli, ancora non sapevano che tra di loro sarebbe nato un sentimento più grande, ma già in quel momento, con quel dono simbolico, c’era una tenerezza espressa senza bisogno di parole.
    Il banco che aveva catturato la sua attenzione si trovava sul lato destro della via e Adam vi si diresse, col sorriso ancora stampato sul viso. Aveva notato con la coda dell’occhio che nello stesso momento si stava avvicinando una ragazza, ma non la guardò perché i suoi occhi si calamitarono sul cavallo di legno che stava in bella mostra sulla bancarella, aveva la stessa posa di quello che aveva realizzato lui tanti anni addietro, solo che questo era fatto molto meglio. Allungò una mano per prenderlo e si accorse che anche la giovane che aveva intravisto poco fa stava guardando lo stesso oggetto, così lo lasciò lì dov’era di modo che potessero ammirarlo entrambi.
    ”E’ molto bello, non trovate anche voi?” Inclinò la testa da un lato, osservando il cavallo da più angolazioni, poi si girò a guardare la ragazza sorridendole con quel suo savoir faire totalmente naturale.
    La sua espressione mutò in un istante. Non era possibile, si stava sicuramente sbagliando, l’aveva sognata così tante volte nella sua mente che adesso vedeva una somiglianza paradossale tra il viso di quella giovane e quello della sua Samantha. Eppure più la guardava e più i dettagli del suo volto e le sue fattezze andavano a combaciare perfettamente con quelle che ricordava di lei, forse era un po’ più magra e nei suoi occhi c’era qualcosa di diverso che non riusciva a decifrare, ma quella era LEI, era Samantha!
    Non osava pronunciare il suo nome a voce alta per paura di scoprire che in realtà si trattava solo di un sogno, dopo tutti quegli anni non riusciva a permettersi di credere fino in fondo di averla ritrovata.
    ”Come vi chiamate?” Le prese le mani tra le sue, quello era un gesto abituale tra di loro quando stavano insieme, anzi di solito soleva anche farle il baciamano, ma non voleva ancora credere all’evidenza. Che i suoi stessi occhi stessero mentendo?
    ”Rassomigliate così tanto a una persona che conosco.” Non poteva lasciarsi andare alla gioia incontrollata, doveva constatare che non fosse tutta un’illusione della sua mente, eppure era così reale. Casualmente quella ragazza stava guardando quel cavallo di legno che era identico a quello che aveva regalato a lei tanti anni prima, che fosse solo una coincidenza?
    Adam non aveva mai creduto alle coincidenze, eppure…


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    we’ve lost everything
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    Elizabeth "Samantha" Montgomery » human
    Il mercato era sempre un luogo molto particolare per me, in grado di offrirmi odori vecchi e nuovi. C’erano quelli che ero oramai abituata a sentire, molto frequenti a palazzo, come il profumo dei fiori del giardino della principessa. Più volte ero rimasta sulla sua soglia ad osservarlo da lontano, per evitare di rovinarlo. Non sapevo se nella mia vita precedente avevo amato i fiori, ma ora, davanti a tutta quella bellezza, non potevo davvero farne a meno. Solo in rare occasioni avevo scambiato qualche parola con il giardiniere, che mi aveva detto che mi sarei potuta recare in quel luogo in qualunque momento, perché alla principessa non sarebbe affatto dispiaciuto che altri godessero dei suoi stessi fiori, ma io avevo sempre avuto un certo timore di farlo. Non conoscevo bene la principessa, ma per ciò che ero riuscita a vedere mi sembrava una persona a modo, sempre educata e gentile, anche con noi servi, eppure non riuscivo a non provare un certo timore reverenziale anche nei suoi confronti. Soltanto Julian era riuscito a farmelo superare per qualche tempo, a mostrarmi per qualche attimo un lato diverso dei vampiri, un lato più buono al quale mi ero affidata completamente, lasciando che divenisse il mio unico modo di guardarlo, e avevo sbagliato. Avevo pensato che si potessero davvero cancellare tutte le nostre differenze, che non fossero poi così importanti, mentre in fin dei conti erano l’unica cosa in grado di legarci. Se ci eravamo conosciuti era stato soltanto perché lui mi aveva salvata e portata a palazzo, altrimenti le nostre strade non si sarebbero mai incrociate. E non lo recriminavo per avermi fatto divenire la sua serva, mi aveva così donato un lavoro e un posto dove stare, una certa stabilità che forse altrimenti non avrei avuto, ero arrabbiata con lui perché mi aveva presa in giro. Ed era per questo che ogni sentimento positivo che avevo provato nei suoi confronti si era spento, scatenando in me tutte le emozioni più negative. Strinsi leggermente i pugni nel ricordare di nuovo quella scena, per poi scuotere appena il capo e sospirare con un certo fastidio, all’idea che riuscisse a raggiungermi persino in quel luogo, in cui avevo sperato di trovare un po’ di pace e tranquillità.
    Presi un profondo respiro e cercai di immergermi completamente in quell’atmosfera, ascoltando le voci di chi, quasi urlando, tentava di convincere i passanti a fermarsi e acquistare un po’ della sua roba. Più volte qualcuno si era rivolto verso di me, cercando di convincermi ad avvicinarmi, ma dopo un sorriso leggero ero passata avanti, alla ricerca di qualcosa che potesse davvero attirare la mia attenzione. Ero stanca delle false speranze e delle illusioni, sentivo il bisogno di vivere, finalmente, qualcosa di vero. Qualcosa che mi facesse sentire viva e completa, qualcosa che riempisse quel vuoto che provavo dentro tra troppi anni ormai e mi chiarisse, finalmente, che genere di persona fossi davvero, chi ero e cosa mi era accaduto. Come avevo fatto a perdere la memoria? Che cosa mi era accaduto? Julian mi aveva promesso di aiutarmi a scoprirlo e di aiutarmi a cercare le mie origini, ma non ero più tanto ben disposta nei suoi confronti oramai. Ero certa che lui avesse tutto il potere e le conoscenze per riuscire a farlo, ma ero io a non volere più il suo aiuto, per nessuna ragione al mondo. Avevo deciso che d’ora in avanti il nostro rapporto si sarebbe ridotto agli incontri necessari e a ciò che era più naturale tra un principe e la sua serva, nient’altro. Non mi sarei più confidata con lui, non gli avrei più rivelato le mie preoccupazioni e i miei desideri perché in fin dei conti non erano affari suoi, ma solamente miei. Lui aveva già fatto abbastanza.
    Osservai quel piccolo cavallo di legno, senza riuscire a capire perchè sembrasse attirarmi con così tanta intensità. C’era qualcosa di familiare in quella piccola scultura realizzata con cura, qualcosa in grado di smuovermi e farmi sorridere con una naturalezza che avevo perso da qualche tempo, ma non riuscii a comprendere cosa. I ricordi del mio passato, brevi e confusi, arrivavano sempre quando meno me lo aspettavo, come nel caso di Demetra, e non ero mai riuscita a trovare un modo per controllarli e farli capitare quando più lo volevo. Sentii una sensazione di calore avvolgermi a quella vista, mista ad una felicità pura e semplice, ma non fu nulla più di questo. Avrei voluto saperne di più, avrei voluto ricordare perché la semplice statuetta di un cavallo sapesse mettermi addosso tanta gioia e serenità, ma non era una domanda che avrei potuto porre ad un semplice intagliatore che aveva allestito una bancarella nel grande mercato di Londra. Come avrebbe potuto lui saperlo? Con la coda dell’occhio notai un ragazzo al mio fianco, interrompere il gesto della mano prima di prendere quella statuetta, probabilmente per non privarmi della sua vista e io istintivamente mossi un passo indietro, come per fargli intendere che poteva prenderla se la desiderava. Ma lui non la prese e anzi mi chiese se anche io la trovava bello. Annuii, con un sorriso leggero prima di rispondergli. -Si, semplice, ma bellissimo. – affermai, prima di sollevare lentamente lo sguardo sul suo, trovando nei suoi occhi un’espressione confusa. Lo guardai senza capire, chiedendomi se avessi detto qualcosa di sbagliato, rimanendo ancora più confusa quando lui prese le mie mani tra le sue, all’improvviso e io arretrai istintivamente per la sorpresa, senza però allontanare le mani dalle sue. Per un attimo nella mia mente comparve l’immagine di due mani prese allo stesso modo, più piccole delle nostre, ma la presa era assolutamente identica, e quella stessa sensazione di calore che avevo percepito alla vista della piccola statuetta di legno mi avvolse ancora una volta. Chiusi gli occhi, stringendo appena le palpebre mentre quella familiare sensazione di giramento di testa, che si faceva sempre sentire in quelle occasioni di piccoli flashback, mi faceva perdere leggermente l’equilibrio. Nella mia testa sentii una voce in lontananza, che assomigliava tanto a quella del ragazzo che avevo di fronte, sebbene sembrasse più giovane e calda, ma non riuscii a percepirla chiaramente. Sentii invece la sua chiedermi come mi chiamassi e dirmi che gli ricordavo tanto qualcuno che conosceva. Io riaprii piano gli occhi, cercando di riprendermi da quel giramento di testa battendo appena le palpebre, per più volte, cercando qualcosa da dire. -Mi dispiace, non ricordo molto del mio passato. – rivelai, prima di ogni altra cosa, quasi a scusarmi di quel bizzarro comportamento. Riflettendoci con più attenzione probabilmente rivelare un dettaglio come quello a qualcuno di cui non sapevo nulla non era stata esattamente la scelta più azzeccata. Non avere un passato o ricordi era una debolezza, un male intenzionato avrebbe potuto approfittarne senza troppi problemi, ma lui non mi dava l’idea di essere quel genere di persona; la sua stretta sulle mie mani sapeva infondermi una certa, immotivata sicurezza. Deglutii piano, prima di andare avanti. -Penso di chiamarmi Elizabeth, o almeno questo è ciò che recita il medaglione che ho al collo. – dissi, per poi delicatamente cercare di liberare la mano destra dalla sua, quasi chiedendogli il permesso, per mostrargli il medaglione che avevo al collo e l’incisione che portava sul retro. All’interno conteneva due foto, ma non gliene mostrai, dovevo sembrargli già abbastanza bizzarra così, senza bisogno di aggiungere molto altro. -Voi come ci chiamate? – chiesi, subito dopo, sebbene dentro di me iniziassi a provare una sensazione strana, come di qualcosa che voleva tornarmi alla mente senza però riuscirci. Sentivo qualcosa spingere dall’interno con forza, ma non riuscii a trovare il modo di liberarlo. Lo guardai ancora, cercando di leggere nel suo volto qualcosa, qualunque cosa, ma nulla riuscii a tornarmi alla mente. Mi suonava così familiare, eppure non sapevo dire dove lo avessi già visto, né se quello fosse soltanto il frutto di ricordi a metà, di somiglianze che non rispondevano alla realtà del mio passato. Provavo sensazioni contrastanti all’interno della mia mente e la cosa mi spaventava un po’.
    Un rumore festoso mi costrinse a voltarmi, continuando a tenere la mano sinistra nella sua, nonostante la stranezza. Notai un gruppo di persone vestite con colori bizzarri e abiti che non avevo mai visto prima e istintivamente mi concentrai un po’ di più su di loro. -Chi sono? – chiesi, un po’ ingenuamente al ragazzo, cercando di comprendere. C’erano ancora così tante cose di cui non sapevo il nome e se quelle persone erano un gruppo particolare con un nome definito, mi sarebbe piaciuto saperlo. Uno di loro, vestito di giallo e arancio, prese velocemente delle mele dal bancone della frutta e iniziò a farle volteggiare in aria con una semplicità e leggerezza che mi lasciarono senza parole. Come faceva a lasciarle andare e riprenderle con tanta facilità? Strinsi con un po’ più decisione, quasi senza volerlo, la mano del ragazzo per poi tentare di condurlo più vicino allo spettacolo, curiosa di vederlo, ma non intenzionata a separarmi dal ragazzo che per un momento mi aveva fatto vedere qualcosa. Un altro, con un vestito realizzato con pezzi di colore diverso dalle forme piuttosto simili e un cappello con diverse punte dalle quali pendevano delle campanelle, saltava e correva in circolo portando in braccio uno strano strumento musicale. -Vorrei raccontarvi la storia di un principe solitario. – iniziò, intonando alcune note con quello strano strumento, mentre un altro di loro, con un semplice mantello rosso e una corona fatta di carta sulla testa, entrava in scena sbucando dietro alcune persone. La mia mente si perse su quelle note, perdendo per un attimo il contatto con la realtà. Un principe che viveva in una terra di draghi e giganti. Sentii, all’interno della mia mente, prima che quell’uomo mi facesse da eco nella realtà. Il giramento di testa fu più intenso questa volta, mentre realtà e ricordi si confondevano con maggiore intensità nella mia testa. Mi aggrappai a lui, per evitare di cadere, chiudendo ancora una volta gli occhi con forza, cercando di regolarizzare il battito del cuore, che aveva iniziato a correre come un matto. Che cosa mi stava succedendo?


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    ADAM HARRISON » Umano/Cacciatore


    16 Febbraio 1715

    Camminava velocemente per le strade devastate di Londra, tutto intorno la gente si affaccendava a risistemare ciò che rimaneva delle loro vecchie case o delle loro vecchie attività, ma lo facevano senza proferire una parola. Un silenzio innaturale regnava per le strade brulicanti della città, quell’assenza di suoni rispecchiava la mancanza di speranza nei cuori della gente che aveva perso tutto in quegli anni. Nessuno alzava gli occhi dal proprio angolo di mondo distrutto, c’era paura persino a guardarsi gli uni con gli altri, il proprio vicino poteva essere uno dei loro, pronto a strappargli dalle mani anche quei miseri resti che stringevano forte al petto, ricordi di ciò che erano riusciti a ottenere e costruire con tanti sforzi e sacrifici. E adesso più niente. Solo macerie e macchie di sangue ovunque, non c’era luogo a Londra dove non vi fossero i segni scarlatti della morte di centinaia di poveri innocenti. A perdita d’occhio, su ogni muro, su ogni porta scardinata, su ogni viale, su ogni filo d’erba vi era quell’alone rosso che faceva stringere il cuore e chiudere gli occhi istintivamente, per allontanare le reminiscenze delle esplosioni dalle orecchie e dei corpi esanimi dagli occhi.
    Adam tutto questo lo aveva vissuto personalmente sulla propria pelle, aveva combattuto in prima linea la guerra che gli aveva rovinato l’esistenza. Si era scontrato coi vampiri corpo a corpo, al fianco della sua famiglia. Aveva visto cadere uno dopo l’altro tutti i suoi parenti, tutti i suoi cari e non aveva potuto fare niente. Lui si era salvato la notte in cui i vampiri salirono al potere e la guerra giunse al suo termine, suo padre si era sacrificato per lui e aveva portato con se' nella tomba il lurido succhiasangue che aveva cercato di uccidere suo figlio. Adam pianse quella notte, non aveva mai versato una lacrima prima d’allora, lui era un uomo e quella era roba da donnicciole, ma quella volta il suo cuore non resse. Era salvo perché suo padre aveva dato la vita per lui e davanti al cielo rilucente di stelle giurò che avrebbe vendicato tutta la sua famiglia. Rimase nascosto per qualche giorno, non sapeva neanche lui quanti, dentro un orfanotrofio distrutto, solo il pian terreno era rimasto più o meno intatto, mentre tutto il resto ormai non era altro che storia. Lasciò quel rifugio senza sentirsi pronto per farlo, sapeva che non lo sarebbe mai stato, ma doveva reagire e uscire allo scoperto per affrontare la realtà. Sapeva che sua cugina Julia era sopravvissuta alla strage degli Harrison, l’aveva vista la notte in cui i vampiri presero il potere, ma anche lei era rimasta troppo scossa da quello che era successo per potersi unire a lui. Entrambi avevano bisogno di tempo per rimarginare le loro ferite che gli avevano scheggiato l’anima, chissà se sarebbero mai riusciti a riprendersi del tutto.
    Quando Adam lasciò l’orfanotrofio alla ricerca di sua cugina, decise di fare un’altra cosa prima, aveva perso di vista durante la guerra la ragazza di cui era perdutamente innamorato e voleva ritrovarla a tutti i costi, lei sarebbe stata la salvezza della sua anima ridotta a frammenti. Quel giorno, a posteriori lo ricordava ancora benissimo, s’incamminò dall’orfanotrofio in cui si era nascosto per raggiungere quella che una volta era casa di Samantha (così si chiamava la giovane per cui batteva il suo cuore) che si trovava dall’altro capo della città. Camminava svelto per le vie di Londra, era nato e cresciuto lì e quel posto non aveva più segreti per lui, infatti non ebbe alcun problema a ritrovare la strada per raggiungere la casa di Samantha. Ore e ore interminabili di cammino, ma il desiderio di rivederla era così forte che il dolore alle gambe e l’arsura della bocca non li sentiva neanche più. Aveva un obiettivo, l’unico che gli era rimasto ora che non aveva più nulla e nessuno. Le gambe lo trascinavano per inerzia, non sapeva neanche lui dove prendesse ancora la forza dopo 5 ore di cammino ininterrotto, ma finalmente era vicino alla meta, ancora pochi passi.
    Adam arrivò davanti al rudere di quella che una volta era una bellissima casa dai colori accesi e brillanti, proprio come le persone che vi abitavano dentro. Si fermò davanti al punto in cui prima c’era un cancelletto in ferro battuto, ma adesso non c’era più, sicuramente era stato sradicato dai cardini, solo che in giro non ce ne era nemmeno l’ombra. Adam sospirò davanti a quello scempio, come poteva essere lì Samantha? Sperò vivamente che non fosse in casa al momento della demolizione di quel luogo che era un pezzo della sua infanzia. Si avvicinò lentamente alla porta d’ingresso, anche quella mancante, e si affacciò per guardare all’interno, ma non appena poggiò una mano sullo stipite dall’alto caddero dei frammenti di muro e Adam si spostò appena in tempo per evitarli. Era impossibile che Samantha fosse lì, però forse a breve sarebbe tornata anche lei lì per vedere in che condizioni era la sua casa. Aveva deciso, l’avrebbe aspettata lì per un po’ e se non si fosse presentata sarebbe andato alla ricerca di Julia, ma non si sarebbe arreso, sarebbe tornato lì ogni volta che poteva solo per cercare di rivederla.
    Adam si sedette su quello che rimaneva del muretto basso di pietra dei dirimpettai dei Montgomery (i genitori di Samantha), avrebbe atteso lì, così avrebbe anche avuto il tempo di riprendersi dalla lunga camminata. Sicuramente in quel momento non emanava un buon odore, aveva sudato ed erano giorni che il suo corpo non vedeva dell’acqua, sicuramente Samantha lo avrebbe rimproverato e questa cosa lo fece sorridere. Chissà se era cambiata in quegli anni che non si erano visti, lo avrebbe riconosciuto con tutta quella barba irta e incolta a nascondergli il viso?
    Era talmente preso dai suoi pensieri che non si era reso conto che la luce del giorno si era lentamente tramutata in quella della sera e che aveva avvolto tutto con le sue ombre scure. Alzò gli occhi sulla casa di Samantha, le macerie parevano nere col calare del buio e l’entrata dove una volta c’era una porta sembrava un antro oscuro da cui tenersi alla larga. Tutto aveva assunto un tono minaccioso e ostile, eppure quel luogo soleva essere fonte di calma e felicità per lui in passato, anche di sera. Adam sospirò, tirando indietro le braccia e appoggiando le mani sul muretto, proprio in quel momento una goccia di pioggia gli scivolò sul viso cogliendolo di sorpresa. Alzò lo sguardo verso il cielo, le nubi erano scure non solo perché era calata la sera, promettevano un temporale in piena regola. Non sapeva che ore fossero, ma non voleva ancora andarsene di lì, ora che aveva l’opportunità di rivedere Samantha non era pronto a mollare così in fretta, anche se il tempo era relativo perché non aveva la più pallida idea di quanto tempo fosse rimasto lì ad aspettare.
    Un tuono ruppe il silenzio della via deserta e minuscole gocce di pioggia presero a scendere, accarezzando il viso del giovane che parve risvegliarsi dal suo torpore solo in quel momento. Non aveva fatto caso ai passanti o ciò che lo circondava mentre era rimasto lì per ore, non aveva davvero guardato ciò che aveva davanti, la sua mente lo aveva guidato per tutto il tempo attraverso pensieri e ricordi di un epoca più felice, aveva bisogno proprio di quello, di felicità ed era per quello che si trovava lì.
    La pioggia si fece più insistente e il vento si levò con essa, forte e impetuoso a infilarsi sotto gli abiti, facendolo rabbrividire. Adam si passò le mani sul viso bagnato, non voleva andarsene, ma l’acqua aveva iniziato a scrosciare così forte da fargli quasi male, a tratti lo colpivano dei chicchi di grandine, mentre l’aria era diventata gelida e tagliente. Non poteva rimanere oltre, lo sapeva, doveva trovare un riparo per la notte e ripartire alla ricerca di Julia, il suo cuore era testardo e capriccioso, ma la sua mente doveva essere forte e portarlo via di lì per adesso.
    Adam si alzò, coprendosi il viso con le mani per evitare che la grandine lo colpisse in pieno, lanciò un ultimo sguardo a quella casa doveva aveva passato tanti bei momenti e se ne andò.


    Camden Town era uno di quei luoghi che lo avevano sempre affascinato sin da bambino, la gente, la merce, gli odori e i colori, tutto si mescolava in un calderone di allegria e calore, sensazioni che Adam non provava più da molto tempo. Quel giorno era lì per delle commissioni, ma i suoi occhi si perdevano e indugiavano su tutti i banchi fuorché quelli di cui aveva bisogno, rimase colpito da una bancarella un po’ isolata da tutte le altre e vi si avvicinò per ammirare le statuette di legno intagliato; la sua attenzione venne calamitata da un cavallo di legno di eccellente fattura, ma non si avvicinò da solo a osservare quella statuetta, accanto a lui c’era una giovane ragazza che pareva interessata allo stesso oggetto. Fu solo quando sollevò lo sguardo che si rese conto di chi avesse accanto. Non era possibile che fosse davvero lì, i suoi occhi gli stavano tirando uno scherzo meschino, l’aveva cercata per anni e adesso era proprio lì di fronte a lui.
    ”Si, ne avevi uno uguale... volevo dire aveva, si si… aveva.” Adam scosse la testa per riprendersi, la fissava con occhi increduli, ma lei non pareva guardarlo allo stesso modo, non coglieva alcuno stupore o alcuna gioia nel suo sguardo. Ricordava perfettamente i suoi occhi scuri, intensi, illuminati da una scintilla calda e avvolgente quando rimanevano a fissarsi senza dire una parola, non avevano bisogno di parlare loro due. In quel momento c’era qualcosa che non andava, lui sentiva un’emozione forte e prepotente nel petto, mentre lei aveva l’espressione di chi aveva appena fatto una nuova conoscenza. Non era lei, quella era l’unica spiegazione plausibile, forse era solo una ragazza che le assomigliava davvero moltissimo e lui aveva appena fatto una figuraccia prendendole le mani e chiedendole il suo nome. Che sciocco che era stato, si era illuso… ma la risposta della giovane lo lasciò letteralmente senza parole. Non ricordava…?
    Adam non lasciò la presa sulle sue mani, piccole e minute proprio come le sue, possibile che anche quella fosse una coincidenza? Le ricordava esattamente così, morbide e delicate, con le dita lunghe e quel minuscolo neo sul polso sinistro. Voleva controllare che ci fosse, quello poteva essere un segno di riconoscimento, ma i polsi erano coperti dalle maniche dell’abito e poi la sua attenzione venne catturata da un’informazione più importante.
    ”Elizabeth…” Ripetè senza un motivo apparente. La ragazza gli aveva sfilato la mano destra dalle sue per mostrarle un medaglione e stavolta non poteva essere un caso, lo aveva visto centinaia di volte quel gioiello, quello apparteneva a Elizabeth, la madre di Samantha.
    ”Dove lo hai preso?” Non riuscì a trattenere un sorriso che gli illuminò il viso, finalmente aveva davanti a se’ la ragazza che aveva anelato per anni, aveva domandato a ogni singolo abitante di Londra se l’avesse vista e tutti gli avevano detto di no, eppure lei era lì. Era a Londra!
    Adam impietrì davanti alla domanda della giovane, ma allora non si ricordava di lui per davvero, non aveva alcuna memoria di loro e… dei loro sentimenti.
    ”Davvero non ti ricordi di me, Sam? Sono Adam.” Pronunciare quelle parole a voce alta fu un tuffo al cuore, ecco perché non l’aveva più trovata e lei non lo aveva mai cercato. Non si ricordava di lui. Avrebbe voluto raccontarle di quella volta che da ragazzini stavano giocando nel cortile di casa sua, lei era caduta nel fango e lui l’aveva presa in giro, allora lei lo aveva trascinato nella pozzanghera e si erano imbrattati gli abiti e i signori Montgomery li avevano sgridati severamente, ma poi si erano messi a ridere con loro perché erano troppo buffi con i loro visi da monelli sporchi di fango.
    Le strinse più forte la mano, strano che non l’avesse lasciata subito, non lo riconosceva, ma non si allontanava da lui, anzi gli parlava con una spontaneità al limite dell’ingenuo. Adam puntò i suoi occhi cristallini in quelli di lei, sentiva l’impulso di stringerla a se’, di sentire il contatto con la sua pelle per sapere che era di nuovo sua, che era di nuovo lì con lui, ma non poteva, lei non ricordava.
    D’un tratto un suono familiare gli giunse alle orecchie, era il liuto dei saltimbanchi che una volta al mese venivano a Camden Town per mostrare il loro spettacolo. Lui e Samantha avevano assistito ai loro numeri molte volte, avevano persino fatto amicizia con uno di loro che tornava lì un paio di volte all’anno dopo aver errato per tutta l’Inghilterra con la sua compagnia vagabonda. Tra i saltimbanchi che erano appena arrivati a rendere l’atmosfera allegra e festosa non vedeva il loro amico Tom, sicuramente quella era un’altra compagnia, anche se in quel momento sperò che tra di loro ci fosse quel viso familiare da mostrare a quella ragazza che aveva la memoria reclusa in un angolo remoto di se’.
    ”Sono i saltimanchi, Sam. Vengono a Camden Town una volta al mese, non li hai mai visti, sei sicura?” Non riusciva a chiamarla Elizabeth ora che era certo di avere davanti ai suoi occhi Samantha Montgomery. Adam non voleva spaventarla, le parlava con delicatezza, anche se dentro di se’ moriva dalla voglia di farle mille domande e di stringerla, quella era la cosa che più desiderava al mondo in quel momento, era un impulso così forte quello che sentiva nei suoi confronti, ma doveva reprimerlo per lei. Avrebbe fatto qualunque cosa pur di non perderla nuovamente e se questo significava dover stare al proprio posto e ricominciare tutto daccapo lo avrebbe fatto, l’avrebbe riconquistata come se non si fossero mai conosciuti prima d’allora.
    Camden Town si era animata di una nuova allegria e di una nuova luce, ma per Adam non erano i saltimbanchi ad aver risvegliato quel posto, bensì quell’ingenua ragazza che non accennava a lasciargli la mano, ma che anzi gliela strinse e lo trascinò più vicino allo spettacolo dei saltimbanchi. Le rivolse un sorriso sincero, colmo di sensazioni che da tempo non provava, si sentiva di nuovo pieno e vivo, tutto grazie a lei, ma non poteva dirglielo, infatti si limitava a guardarla con l’espressione di chi non desiderava essere altrove se non lì.
    ”Un tempo quel gioco con le mele lo sapevi fare anche tu, te lo aveva insegnato Tom.” Non poteva parlarle di sentimenti, ma poteva cercare di risvegliare la sua memoria sopita con gentilezza, lanciandole dei piccoli imput per vedere come reagiva. Forse lo avrebbe preso per pazzo, la stava chiamando Sam da quando l’aveva incontrata e gli raccontava cose che magari lei aveva voluto dimenticare di proposito. Non ci aveva pensato prima. E se il punto fosse che lei non voleva ricordare? Ma perché? Per quale motivo?
    I suoi pensieri vennero interrotti dalla familiare canzone che il cantastorie aveva appena iniziato a narrare, lui e Sam avevano assistito agli spettacoli di diverse compagnie di saltimbanchi e quella era una delle loro storie preferite. Adam si voltò a guardare la ragazza al suo fianco per vederne la reazione, ma non fu esattamente quella che si aspettava, la vide chiudere gli occhi e aggrapparsi con forza a lui per non cadere. Si sentiva poco bene? La sorresse con entrambe le braccia, poggiando le mani sulla sua vita, una presa decisa, ma delicata. Il suo corpo contro il suo era così familiare, una sensazione indescrivibile di calore lo avvolse, un’emozione così intensa che non poteva spiegarsi a parole.
    ”Stai bene?” Adam non lasciò andare la presa su di lei, anzi portò un braccio dietro la sua schiena e l’altro in basso, dietro le ginocchia, per poterla sollevare e portarla in un angolo meno affollato del mercato. Doveva prendere un po’ d’aria e sicuramente la folla non le era d’aiuto. Quante volte l’aveva presa a quel modo e l’aveva baciata intensamente, sentendo il suo cuore contro il proprio petto tremare solo per lui? Scacciò quel pensiero e si concentrò su di lei in quel momento, rivolgendole un sorriso rassicurante. Si allontanò dal centro del mercato e l’adagio sul muretto di pietra poco distante dalla bancarella delle statuette in legno, appoggiò un ginocchio a terra per poterla guardare in viso. Allungò una mano verso il suo volto e le accarezzò la guancia col palmo aperto, piano, un movimento ripetitivo e dolce, quasi una melodia sussurrata con le mani. ”Va meglio, adesso?” Adam allontanò le dita dal suo viso controvoglia, alzandosi in piedi in uno scatto.
    ”Aspettami qui.” Le fece cenno di attenderlo con la mano e sparì tra i banchi, sapendo esattamente quale stava cercando, si avvicinò a quello della frutta e si fece dare dalla commerciante una mela rossa. Le lasciò il resto, non aveva tempo da perdere con lei, c’era Samantha che lo aspettava, ancora non riusciva a crederci. Fece una corsa tra le bancarelle per tornare da lei e si accomodò al suo fianco, porgendole la mela che aveva comprato apposta per lei.
    ”Questo una volta era il tuo frutto preferito e…” Non finì la frase perché delle gocce di pioggia sul volto lo distrassero da ciò che stava dicendo. Un sorriso gli dipinse le labbra, gli venne in mente il loro primo bacio: erano seduti sul muretto di casa Montgomery e aveva appena iniziato a piovere, proprio come in quel momento, si punzecchiavano, una frecciatina dopo l’altra, avvicinandosi sempre di più ad ogni battutina finché i loro visi non furono così vicini da sfiorarsi. Stille di pioggia rigavano i loro volti, disegnando delle forme astratte sulla loro pelle, Adam andò ad asciugare l’acqua sulla guancia di lei, fermando la mano lì, avvicinandosi lentamente alle sue labbra, sperando che lei non si scansasse. Aveva il cuore in gola in quel momento, ma non indugiò a lungo, la baciò e lei ricambiò quel suo gesto, non si erano mai detti cosa provavano l’uno per l’altra, ma quel bacio parlava per tutto ciò che avevano taciuto.
    Il loro primo bacio.
    Adam si riebbe da quel ricordo improvviso, si morse il labbro inferiore per mettere a tacere il suo istinto e il suo desiderio di baciarla lì sotto la pioggia, come quella volta di tanti anni fa. ”Forse dovremmo ripararci…” Le disse invece, allungando una mano verso di lei invitandola a seguirlo, a rimanere ancora un po’ con lui nonostante la pioggia. Aveva bisogno di parlarle, di farle tante domande… aveva bisogno di lei. Quella mano allungata era una domanda in attesa di risposta. Si sarebbe fidata e l’avrebbe seguito?

    It’s only after
    we’ve lost everything
    that we’re free to do anything

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    Edited by Aruna Divya - 6/5/2015, 20:51
     
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    Elizabeth "Samantha" Montgomery » human
    “La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.”
    (Gabriel García Márquez)

    Correva veloce e leggera, lasciandosi trasportare da quel leggero venticello che le solleticava la pelle e i capelli e che le aveva sempre fatto compagnia da che lei ricordasse. Rideva, a cuore aperto, felice, completamente ignara di ciò che di lì a qualche anno le sarebbe capitato, di come il suo mondo sarebbe stato stravolto per sempre. Credeva che la sua vita sarebbe stata sempre così, sempre una cosa verso l’ignoto e l’avventura, sempre allegra, tranquilla, piena di quei sentimenti positivi di cui si era sempre circondata e quando guardava al futuro lo immaginava radioso e pieno di aspettative. Una vita serena accanto ad un uomo che, nonostante il suo carattere non proprio semplice da avere accanto, sarebbe riuscito a sopportarla e ad amarla fino alla fine dei loro giorni e le avrebbe dato quella famiglia che tanto desiderava. Sapeva che non sarebbe stato semplice convincere i suoi genitori a farle fare la sua scelta a riguardo, soprattutto sua madre, ma sognare dopotutto non costava nulla, quindi poteva farlo liberamente, ogni volta che lo desiderava. E mentre correva più veloce che poteva, muovendo le esili gambe da ragazzina, pensava a tutte quelle cose e pensava che lei e suo fratello non si sarebbero mai divisi, che nulla sarebbe mai stato in grado di farlo. Non riusciva ad immaginare una vita senza Matthew, un’esistenza priva di quel suo volto da ragazzino sempre pronto a stuzzicarla e prenderla bonariamente in giro, su ogni argomento. Si volevano bene, lei gliene voleva molto nonostante spesso desiderasse soltanto prenderlo a pugni per cancellare dal suo volto la sua faccia da schiaffi, ma non avrebbe mai scambiato suo fratello con nessun altro. A loro non erano mai servite parole per comunicare, non erano mai state necessarie. Sapevano capirsi con una semplice occhiata, lui sapeva che lei stava per commettere una sciocchezza solo dal modo in cui si preparava a fare il passo successivo, dalla postura delle braccia e dalle spalle, dal modo in cui inclinava la testa leggermente di lato, quasi impercettibilmente, sempre a destra, un gesto metodico che lei non si era mai resa conto di fare e che lui invece aveva imparato a notare e comprendere. E per lei era stato lo stesso, sin dal primo istante. Non aveva bisogno di chiedergli se c’era qualche tipo di problema, le bastava sentire il tono della sua voce per capire ogni cosa, o anche soltanto il diverso luccichio all’interno dei suoi occhi scuri.
    Corse ancora, tentando di superarlo, attraversando il grande prato verde che circondava tutta la casa, accelerando ancora poi verso il cancello in ferro battuto che segnava l’inizio della loro proprietà. Erano cresciuti in mezzo a quella distesa sconfinata di campi verdeggianti, si erano rincorsi tra i suoi alberi per intere giornate quando erano più piccoli per poi iniziare ad arrampicarvisi e osservare il mondo da quell’altezza. Lo facevano spesso, ma raramente da soli. Samantha e Matthew erano sempre stati bambini socievoli e non era mai stato complicato per loro farsi degli amici, sebbene non tutti gli amici fossero uguali. Riuscivano a socializzare molto velocemente, ma spesso il rapporto si fermava a quel livello. Samantha non era solita fidarsi della prima persona che conoscesse, sebbene fosse piuttosto aperta e amichevole c’erano dei limiti che solo raramente lasciava attraversare, soltanto alle persone più vicine a lei. E questi amici, se confrontati al numero di persone con cui aveva sempre avuto a che fare, erano davvero pochi. Uno di questi sarebbe arrivato a breve, un amico che in origine era stato solamente di suo fratello, ma con il quale nel tempo aveva legato molto anche lei e oramai dall’esterno nessuno avrebbe saputo dire chi dei due lo attendeva con più forza quando sapeva di un suo prossimo arrivo.
    Corse ancora, spingendo con più forza e riuscendo così a superare suo fratello, giusto in tempo per percorrere gli ultimi brevi metri e poi arrampicarsi sul muretto di pietra e stare lì, seduta, con le gambe che pulsavano per lo sforzo, il cuore che batteva con forza per quella corsa senza pensieri e l’attesa a rendere ancora più lungo quel momento. Suo fratello la raggiunse poco dopo, salendo sul muretto con un gesto più veloce del suo e portandosi al suo fianco, per guardare insieme a lei l’orizzonte dal quale il loro amico sarebbe arrivato. -Tra quanto pensi che arriverà? – chiese, con impazienza, la piccola Sam, sollevandosi appena sulle braccia per poter controllare se si vedesse qualcosa in lontananza. -Arriverà, lui arriva sempre. – disse Matt, facendo spallucce, ritenendola la cosa più scontata del mondo. Da che lui ricordasse Adam era sempre stato il suo più caro amico e non aveva mai avuto alcun dubbio su di lui, neppure per le cose più sciocche. -Lo so che arriverà! Ma quando? – chiesi lei, quasi pretendendo una risposta questa volta da quel fratello maggiore che per lei era più volte stato un esempio. Lui fece spallucce, per farle capire che non ne avesse la più pallida idea e lei sbuffò, sonoramente. Le piacevano le sorprese ma odiava non avere il controllo della situazione e non sapere. Posò le mani sul bordo del muretto, accanto alle sue ginocchia, per poi tirarsi leggermente indietro con la schiena facendo leva sulle braccia per poter osservare il cielo azzurro e luminoso sopra la testa. Non era mai stata troppo paziente. Aveva una vitalità dentro di sé che la portava sempre ad agire, talvolta a sproposito, ma qualunque cosa pur di non rimanere ferma. -Come mai tutto questo interesse? – chiese ad un certo punto Matt, dopo averla osservata a lungo, con una voce divertita che lasciava perfettamente intendere che il suo discorso non si sarebbe fermato lì. Lei si voltò a guardarlo, girando completamente la testa per cogliere il sorrisetto divertito e provocatorio di suo fratello. -Non dirmi che ti piace! – affermò quindi, provocandola con un certo divertimento, certo che non fosse così, ma impossibilitato a lasciarsi sfuggire quell’ulteriore pretesto per stuzzicarla. Se fosse stato vero lui probabilmente non sarebbe riuscito ad accettarlo, non molto in fretta. Avrebbe potuto farlo se era soltanto sua sorella a provare qualcosa, senza che lui ricambiasse, perché così sarebbe stato più semplice convincersi che nessuno gliel’avrebbe mai portata via. Lei sollevò le sopracciglia, offesa da quelle parole, riportandosi immediatamente in posizione eretta per riprendere stabilità prima di dargli un pugno sulla spalla, con tutta la forza che avesse, sebbene questa non bastò neppure a farlo muovere, ma anzi, lo fece ridere di gusto. -Non dire assurdità! – rispose lei, prontamente, come se fosse la cosa più naturale del mondo e lui si tranquillizzò un po’, accogliendo la vista dell’amico in lontananza con un’espressione di giubilo, scendendo dal muretto con un semplice salto. Lei invece rimase lì ancora per un po’, su quel muretto, lo sguardo fermo nella sua direzione. Non aveva mai riflettuto sul perché lo avesse sempre atteso con tutta quell’ansia e quella gioia, la domanda di suo fratello glielo fece notare all’improvviso, come una secchiata d’acqua gelida. E mentre lo guardava ora si rese conto che il suo cuore riprese a battere con forza, con un’agitazione che lei non era mai stata in grado di notare prima e la faceva sentire in qualche modo un po’ strana. Lo guardò ancora e un sorriso largo e finalmente felice si dipinse sulle sue labbra quando ebbe modo di riconoscere i tratti ormai familiari del suo volto e pensò che non sapeva perché lo attendesse sempre con tutti quei sentimenti, ma sapeva che da tempo non poteva più riuscire ad immaginare la sua vita senza quelle visite.
    Non sapeva lei quanto lui sarebbe divenuto importante all’interno della sua vita e ancor meno sapeva che, per anni, avrebbe vissuto senza di lui senza provare assolutamente nulla.


    Osservai il ragazzo al mio fianco, trovandolo per un istante bizzarro nel suo confondersi nel dire alcune parole. Si era rivolto inizialmente a me per poi spiegarmi che qualcuno che conosceva aveva un cavallo di legno uguale a quello, o almeno questo era ciò che pensavo di essere riuscita a comprendere. Mi guardava in maniera strana, come se non riuscisse a credere a qualcosa e io non riuscivo a comprenderlo. Inarcai appena le sopracciglia, cercando di studiarlo un po’ meglio e di capire che cosa stesse accadendo, ma non ebbi molto successo. Non ero molto brava a comprendere le persone, ormai ero convinta di averlo capito, soprattutto quelle che non conoscevo affatto. Chissà se un tempo era stato diverso, se le mie abilità nel comprendere le persone erano state un po’ più sviluppate. Mi guardava come se fosse certo di avermi già vista in passato, mentre io ero quasi certa di non averlo mai visto prima. Ripeté il mio nome, come se volesse convincersene, o forse come se qualcosa gli risultasse strano, non avrei saputo dirlo. Più lo guardavo e meno riuscivo a capirlo. Mi chiese dove avessi preso il mio medaglione, con un sorriso radioso sul volto, come se avesse appena ricevuto una bellissima notizia e io lo guardai con aria leggermente smarrita, prima di stringermi leggermente nelle spalle. -Non lo so. Quando mi sono svegliata lo avevo già – ammisi, senza riuscire a dare nessun altro genere di spiegazione. E se quel medaglione non mi apparteneva? Se lo avevo sottratto a qualcuno anni prima? A questo non avevo mai voluto pensare, ma ora che quel ragazzo mi aveva posto quella domanda, iniziai a chiedermi se per caso l’avessi rubato proprio a lui. -E’ tuo? – chiesi, un po’ timorosa, ma assolutamente pronta a restituirlo se quella fosse stata la verità. Avevo pensato che quello fosse il mio unico ricordo vivo con il passato, ma se così non fosse stato? Quando gli dissi che non ricordavo assolutamente nulla del mio passato vidi la sua espressione farsi più seria e forse in qualche modo anche più triste, prima di chiedermi se davvero non mi ricordassi di lui, chiamandomi Sam, come Demetra aveva fatto in passato, prima di dirmi che si chiamava Adam. Abbassai lo sguardo verso il pavimento, sospirando appena, affranta da quella situazione. Ero uscita dal castello per avere una ventata d’aria nuova, ma forse tutta quella situazione era un po’ scomoda da affrontare sa sola. Mantenni lo sguardo basso prima di parlare. -Sei la seconda persona che mi chiama così. – dissi, senza quasi neanche rendermene conto, sovrappensiero. Se le parole di Demetra avevano saputo mettermi in dubbio, ora non sapevo davvero più cosa pensare. Tentai di scavare nella mia memoria, di raggiungerla alla ricerca di questo Adam che lui diceva di essere, ma non riuscii a trovare nulla. Rimasi a pensarci a lungo, forse troppo, lasciando calare il silenzio per qualche momento, prima di scuotere il capo, abbattuta. -No, mi dispiace. – dissi, ed ero sinceramente molto triste di non ricordare nulla a riguardo. Forse non era stata una buona idea raggiungere Camden Town, non da sola, ma chissà a cosa pensavo quando avevo preso quella sciocca decisione. Feci per allontanare anche l’altro mano dalla sua e allontanarmi da lui, troppo a disagio in quel momento per poter continuare ad affrontare quella conversazione, ma un rumore festoso catturò completamente la mia attenzione, portandomi lontana con la mente e mantenendomi invece lì con il corpo, a stringere quella mano che non conoscevo e che eppure mi risultava così familiare. Non sapevo come sentirmi a riguardo. Una parte di me voleva fuggire via da lui, lontano, credere che nulla di tutto quello che lui stava dicendo fosse vero, credere che fosse soltanto un ragazzo che mi aveva scambiata per un’altra persona, perché sarebbe stato più facile, estremamente più facile, continuare a fare finta di nulla e credere di aver compreso qualcosa. Affrontare la realtà, se quella lo era davvero, non sarebbe stato altrettanto semplice.
    Eppure continuai a stringere la sua mano e lo guidai in mezzo a quella folla, quasi mossa da una forza che neppure riuscivo a spiegarmi, ma che continuava a dirmi di andare avanti e di non allontanarlo, non ancora. Osservai lo spettacolo, rapita da quei colori e dai suoi che quegli uomini avevano portato con loro. mi risultava tutto completamente nuovo, eppure sentivo che c’era qualcosa di sbagliato in quella novità, come un tentativo dei miei ricordi di tornare a galla senza però riuscirci. Scossi di nuovo la testa quando lui mi chiese se ero sicura di non averli mai visti, dopo avermi spiegato che erano dei saltimbanchi e che venivano a Camden Town una volta al mese. -No, da quando ho memoria non sono mai riuscita a incontrarli, questa è la prima volta. – gli spiegai, iniziando a pensare di risultare un po’ noiosa con tutta quella faccenda. Non dovevo essere una persona molto simpatica e di compagnia, considerando che non facevo che dire di non ricordare nulla. -Immagino di non essere una grande compagnia. – ammisi poi, senza riuscire a trattenermi, guardandolo con la coda dell’occhio, cercando di scusarmi con quella semplice occhiata di non avere poi così tanto di cui parlare. Un’altra cosa che avevo iniziato a capire di me stessa era il fatto che molto spesso non riuscissi a rimanere in silenzio e sentissi la necessità di dire quello che pensavo anche quando forse sarebbe stato meglio non dirlo. Continuava a chiamarmi Sam, nonostante io non mi sentissi molto a mio agio con quel nome, né fossi certa di chiamarmi davvero in quel modo, in quel momento non ero più certa di nulla. Non gli dissi nulla però a riguardo, anche perché non avrei saputo cosa dire. In fondo per me era un nome come un altro, non faceva poi molta differenza fino a che non fossi riuscita a scoprire la verità.
    Lo guardai molto perplessa quando mi disse che un tempo anche io sapevo fare quel gioco con le mele. I miei occhi indugiarono sul suo volto per lunghi istanti, chiedendomi se stesse scherzando o se fosse serio, prima di scoppiare in una leggera risata. -Oh no, non credo proprio! Sarei in grado di combinare un disastro anche soltanto voltandomi troppo velocemente! – dissi e lasciai che un’altra risata mi colorasse il volto, cercando di alleggerire un po’ di quella tensione che sentivo tra di noi, ma che non sapevo se anche lui riusciva a percepire. Il nome però che disse catturò ancora una volta la mia attenzione. -Chi è Tom? – chiesi, decisamente incuriosita. In quel momento mi resi conto di non avergli chiesto chi fosse lui, mi aveva detto il suo nome, ma quando questo non era riuscito a dirmi nulla non avevo cercato di indagare oltre. Il motivo era che mi sembrava scortese chiedere a qualcuno di ricordarmi chi fosse e in parte, ad essere sincera, temevo anche la sua risposta. Non sapevo quanto forte potesse essere stato il nostro legame, a giudicare dal suo sguardo la risposta doveva essere molto e non volevo saperlo senza averne alcuna memoria, sarebbe stato forse troppo da sopportare, sebbene mi rendessi anche conto che non dovesse essere semplice neppure lui, sempre che non si stesse inventando ogni cosa. quando fui sul punto di cadere lui non esitò a sorreggermi con le sue braccia. La sua era una presa che mi trasmetteva forza e delicatezza allo stesso tempo, così come una strana sensazione di sicurezza. Perché mi sentivo così bene al contatto con lui? Non riuscii a rispondere immediatamente quando mi chiese se stessi bene, ancora troppo frastornata da quell’ennesimo giramento di testa e da quella marea di sensazioni che mi stava mandando in estrema confusione. Quando mi prese tra le sue braccia, sollevandomi completamente da terra, sentii le gote avvampare per l’imbarazzo e abbassai lo sguardo per non incontrare il suo. Mi sentivo incredibilmente a disagio in quella situazione eppure non avevo la forza di chiedermi di rimettermi a terra o di allontanarlo. Mi sentivo maledettamente in colpa per tutta quella faccenda, considerando che non sapevo davvero niente di lui, ma la mia mente non riusciva più a ragionare lucidamente come aveva sempre fatto sino a quel momento. Mi portò in un angolo della piazza un po’ più silenzioso e sgombro dalle persone, adagiandomi piano su un muretto, con un’attenzione che mi fece quasi arrossire di nuovo. Chi era quel ragazzo? Era una domanda che non avevo la forza di esprimere ad alta voce, ma continuava comunque a martellare l’interno della mia mente. Abbassai lo sguardo, imbarazzata, quando il palmo della sua mano andò ad accarezzarmi la guancia. Avrebbero dovuto spaventarmi tutte quelle attenzioni, eppure ciò che provavo dentro di me era soltanto un vuoto incolmabile che non riuscivo a riempire in alcun modo. Annuii piano alla sua domanda sulla mia salute, ritrovandomi quasi a trattenere il respiro nel momento in cui la sua mano si allontanò dal mio viso, sentendone immediatamente la mancanza. Quella era senza dubbio la giornata più strana che avessi vissuto da anni e una parte di me sarebbe corsa via immediatamente, approfittando di quel suo momento di lontananza per tornare al castello, ma l’altra mi tenne ben ancorata a quel muretto di pietra, cercando di seguire il ragazzo con lo sguardo per comprendere dove si fosse diretto. Sentivo il cuore continuare a martellarmi nel petto e non avevo idea di come farlo smettere, così come non sapevo perché fossi ancora lì e perché gli avessi permesso di starmi così vicino.
    Sussultai appena quando li vidi tornare con il mano una mela rossa, per poi accomodarsi al mio fianco e porgermi la mela, dicendomi che un tempo era il mio frutto preferito. -Lo è. – aggiunsi io, molto spontaneamente, mentre il mio sguardo si perdeva per qualche istante sulla buccia lucente di quel frutto. Se davvero ero io la ragazza di cui parlava, o almeno lo ero stata un tempo, allora era bello sapere che qualcosa, anche se una sciocchezza come quella, non era cambiato. Avevo allungato la mano per prenderlo e nell’istante in cui le nostre dita si erano sfiorate di nuovo avevo sentito un lungo brivido caldo che mi aveva percorso lungo tutta la schiena, prima che alcune isolate gocce di pioggia mi cadessero sul volto, la prima sul naso, poi un’altra sulla fronte e poi alcune sulle guance, che continuarono la loro corsa, terminandola sul vestito che avevo indosso. Mi persi ad osservare le gocce di pioggia che avevano preso a cadere sul volto di lui, quasi incantata dal loro movimento fluido e naturale. Allungò quindi una mano verso di me, invitandomi a seguirlo e a trovare un posto in cui ripararci da quella pioggia improvvisa. Io guardai la sua mano per un istante, tenendo la mela stretta nella mia mano destra, mordicchiandomi appena il labbro mentre pensavo a cosa rispondere. Non volevo andare via così in fretta, quella nuova conoscenza si stava rivelando sin troppo magnetica, ma non ero ancora del tutto convinta. -Devo tornare al castello entro sera o verranno a cerarmi. – dissi, quasi mettendolo in guardia, facendogli capire che avevo soltanto alcune altre ore a disposizione e che se aveva cattive intenzioni avrebbe fatto meglio a togliersele subito dalla testa. Se era un male intenzionato sentire nominare il castello lo avrebbe subito fatto allontanare, in caso contrario invece probabilmente non gli sarebbe importato affatto del luogo in cui trascorrevo le mie giornate, o forse avrebbe addirittura voluto saperne di più. Lo guardai negli occhi, seria. -E preferirei di gran lunga che il principe Julian non si scomodasse per venire a cercarmi, ok? – terminai poi, aspettando di comprendere, anche soltanto con un suo cenno del capo che avesse inteso e che fosse d’accordo, prima di dargli la mia mano e lasciare che mi guidasse per le vie della città. Io non ricordavo più nulla di Londra, non avrei saputo dove andare.


    Don't want your hand
    this time I'll save myself
    Maybe I'll wake up for once

    « swän » code esclusivo del London gdr. Non usare senza il mio permesso.

     
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    ADAM HARRISON» Umano/Ribelle


    I'm staring out into the night
    And trying to hide the pain
    I'm going to the place where love
    and feeling good don't ever cost a thing,
    And the pain you feel's a different kind of pain
    I'm going home to the place where I belong
    where your love has always been enough for me
    (Chris Daughtry – Home)


    Camden Town, 1712

    ”Dai, Sam! Datti una mossa!” Matthew le fece cenno di raggiungerlo, fermandosi a pochi passi dal portone di un vecchio cafe che aveva tutta l’aria di essere abbandonato da tempo. Tutto di quel posto sapeva di dimenticato, dalle porte scorticate e scolorite, alle vetrate chiuse con delle assi di legno marcio, rovinate dalle intemperie inclementi. Eppure quel luogo doveva aver vissuto dei giorni di gloria incredibili perché nonostante fosse caduto in rovina, si riusciva a scorgere la bellezza di ciò che un tempo era stato.
    ”Se non vi sbrigate, vi lascio qua fuori!” Esclamò Adam, voltandosi verso i fratelli Montgomery, fingendo un’espressione seccata per la loro lentezza, ma gli veniva da ridere mentre con le mani teneva aperto il passaggio che lui e Matthew avevano scoperto parecchio tempo addietro. I due amici solevano andare spesso in quel luogo dimenticato da Dio, infatti avevano trovato svariate vie d’entrata e di uscita, ma visto che quel giorno c’era anche una signorina con loro, avrebbero usato l’entrata più agevole e meno bizzarra che conoscevano: si trattava di due pannelli di legno che ricoprivano quella che sicuramente un tempo era la porta del locale, il pannello inferiore non era ben fissato e quindi era facilmente spostabile, così da consentire l’accesso a chiunque fosse a conoscenza di quel particolare.
    I tre ragazzi entrarono dentro l’edificio gattonando attraverso l’apertura tra i pannelli, una volta raggiunto l’interno il primo ad alzarsi fu Adam che si avvicinò a Samantha allungando una mano in sua direzione. ”Vieni, ti aiuto.” Puntò i suoi occhi chiari in quelli di lei, c’era qualcosa d’intenso in quello sguardo, parole sospese che per un attimo fecero dimenticare ad Adam dove fossero, era completamente concentrato su Sam e su quella sua piccola mano che aveva appena afferrato la sua. Bastò quel breve contatto per scatenare in lui una reazione inaspettata.
    ”Bravo pensa a fare il cavaliere! E a me non ci pensi affatto?” Matthew intervenne a sdrammatizzare quell’attimo d’intimità tra i due giovani che parevano essersi scordati della sua presenza. All’inizio non era stato molto contento del fatto che sua sorella e il suo migliore amico si piacessero, ma poi, vedendo come si prendevano l’uno cura dell’altra e il loro affetto crescere giorno dopo giorno, non poté fare a meno di cambiare idea e di dargli la sua benedizione.
    Adam aiutò Sam a rimettersi in piedi, poi si voltò verso l’amico e iniziò a rivolgersi a lui con finto tono melodrammatico, portandosi la mano al petto. ”Oh, no! Ma lei è una donzella in difficoltà e io non l’ho degnata nemmeno di un’occhiata. Mi perdoni!”
    ”Lei è stato proprio rude nei miei confronti, sa?” Matthew tirò fuori una vocina stridula a imitazione di quella femminile, gettandosi tra le braccia del suo amico con enfasi esagerata. ”Oh, la prego mi sostenga, non ce la faccio!” E giù a ridere per quel gioco che era servito al suo scopo, alleggerire l’atmosfera tra di loro. Non che ci fossero problemi tra loro tre, anzi, tutto il contrario, solo che erano tutti consapevoli del fatto che l’unione tra Adam e Samantha era un rischio perché se fosse finito male avrebbe portato alla rottura dei rapporti non solo tra loro due, ma anche con Matthew che ovviamente in tal caso avrebbe spalleggiato la sorella.
    ”Allora? Cos’ha di così speciale questo posto per voi due che ci venite tanto spesso?” Samantha spostò lo sguardo dal fratello ad Adam e viceversa. Le avevano chiesto di andare con loro perché avevano qualcosa da mostrarle, ma non avevano voluto dirle nulla, non avevano vacillato davanti a nessuna delle sue tattiche di persuasione fino a quel momento. La ragazza aveva provato in ogni modo a farsi dire di cosa si trattasse perché in cuor suo sperava che fosse una sorpresa per il suo compleanno che cadeva proprio quel giorno, ma pareva che le persone a lei più care se ne fossero completamente dimenticate.
    ”Adesso lo scoprirai, devi avere ancora un attimo di pazienza. Vado a sistemare una cosa e poi potete entrare.” Matthew si dileguò dietro una porta alla loro destra, lasciandoli da soli per qualche istante e subito l’atmosfera cambiò: gli occhi si fecero languidi, le gote arrossate di pudicizia e i respiri più corti. Adam le si avvicinò di qualche passo, circondandole le spalle col braccio e lei si appoggiò a lui, lasciandosi andare ad un sospiro.
    ”Passerei le ore così con te, l’uno nelle braccia dell’altra.”
    ”Io passerei le ore anche in un’altra maniera…” Gli occhi di Samantha scivolarono sulle labbra del ragazzo per un istante, giusto per lasciare intendere ciò che pensava, ma non osò di più, nonostante Adam fosse il suo fidanzato da più di un anno ormai, temeva sempre che suo fratello potesse reagire male nel vederli in atteggiamenti troppo intimi.
    ”Chissà che non abbia capito cosa intendi…” Si girò verso di lei, cingendole la vita con entrambe le braccia, poi l’attirò a se’ dolcemente per posarle un bacio sulle labbra, uno soltanto, giusto per testare la sua reazione e la sua voglia di opporgli resistenza.
    ”Sai che se ci vedesse saremmo nei guai, vero?” Gli mormorò in un soffio senza staccarsi dalla sua bocca, il suo corpo desiderava tutto fuorché allontanarsi da lui, ma gli occhi erano vigili, ogni tanto si fissavano sulla porta che Matthew si era richiuso alle spalle prima.
    ”Si, ma ne varrebbe la pena!” La strinse più forte a se’, portandole una mano sul viso e la baciò prima che potesse rispondergli, catturò le sue labbra socchiuse con le proprie, imprigionando così le sue parole, lasciandole sospese in quel bacio.
    Quel momento magico venne interrotto dalla voce di Matthew che li chiamava perché finalmente era tutto pronto, aveva scelto il momento sbagliato per invitarli a entrare nella sala adiacente, infatti i due ragazzi rimasero ancora un po’ a stringersi e ad accarezzarsi prima di separarsi e dirigersi verso la stanza accanto. Adam aprì la porta e si ritrovarono in una vecchia e polverosa sala da tè: un tempo quel posto era uno dei cafe più rinomati di Camden Town, purtroppo accadde che il proprietario si ammalò gravemente e scelse suo figlio come suo sostituto, ma quest’ultimo non fu in grado di gestire il locale e così dovettero dichiarare il fallimento.
    Divani rossi ricoperti di coltre, da cui usciva l’imbottitura, tavoli rovesciati a cui mancavano diverse parti e il cui legno era marcito in alcuni punti, tele consunte dal tempo sparse sul pavimento e frammenti di candelabri anneriti a terra, questo era ciò che rimaneva del Kelvingrove Cafe. Nonostante ogni angolo di quel posto gridasse a chiare lettere “oblio”, aveva comunque quel velo di mistero a mantenerne intatto il fascino, l’unica cosa ancora intera in quel luogo.
    ”Auguri!” Gridò Matthew, uscendo da un angolo in penombra con in mano una piccola cesta di vimini. Si avvicinò ad un tavolo poco distante da Samantha e vi poggiò sopra il contenitore, iniziando a trafficare col suo contenuto, sorridendo in silenzio. Tirò fuori un dolce ripieno di uvetta e frutta secca che aveva preparato la mamma di Adam, loro complice in quell’occasione.
    ”Avete solo finto di non sapere che giorno fosse oggi! E io che credevo che voleste davvero portarmi qui per mostrarmi una cosa da ‘maschi’!” La ragazza incrociò le braccia al petto, dietro quel tono da dura celava l’emozione per quella sorpresa meravigliosa, era tutta la mattinata che non le dicevano nulla, che la trattavano come se quello non fosse un giorno speciale e invece con quel gesto le avevano appena dimostrato quanto tenessero a lei, quanto entrambi le volessero bene. Samantha abbracciò prima suo fratello, poi si avvicinò ad Adam e si soffermò in quel calore che le dava la sua vicinanza.
    ”Auguri, amore.” Quell’ultima parola lasciò la giovane di stucco, non l’aveva mai chiamata così prima d’ora, glielo aveva sussurrato all’orecchio, come un tacito segreto tra di loro.
    Amore, Adam l’aveva appena chiamata “Amore”…


    Da anni anelava di rincontrare l’unica donna che avesse mai amato e adesso che ce l’aveva davanti agli occhi, lei non si ricordava di lui. Non solo il destino aveva deciso di portargli via l’intera famiglia, ma adesso si divertiva a metterlo alla prova ancora una volta, gli aveva portato la persona che il suo cuore desiderava di ritrovare da anni, ma quell’incontro non era andato come si aspettava. ”Attento a ciò che desideri.” Glielo aveva ripetuto tante, troppe volte sua madre, ma non aveva mai dato peso alle sue parole, credeva che volesse solo dargli fastidio o aprire la bocca giusto per dire qualcosa, ma invece aveva perfettamente ragione. Per tutto quel tempo non aveva tenuto conto di come avrebbe potuto diventare Samantha, lui si aspettava di ritrovare la stessa ragazza di un tempo e in parte era così: il suo corpo era lo specchio di una Samantha cresciuta, ma la sua anima era come uno spettro che vaga sulla Terra alla ricerca di pace. Quella che aveva davanti era la versione sbiadita della ragazza che conosceva da sempre, non sapeva come, ma l’avrebbe aiutata in ogni modo a recuperare i suoi ricordi… i loro ricordi.
    ”Mio? Stai scherzando, vero?” Ma dall’espressione che lei aveva dipinta sul viso non ebbe bisogno di alcuna risposta, non sapeva davvero se quel medaglione fosse suo o meno. ”E’ tuo, Sam, lo so per certo… Esitò a proseguire, era indeciso se dirle la verità su quel gioiello, forse era troppo presto e molto probabilmente non gli avrebbe nemmeno creduto, era come se non si conoscessero, quindi prima doveva riconquistare la sua fiducia. Sospirò, ma non aveva intenzione di lasciarsi abbattere dal fatto che le cose sarebbero state molto più difficili del previsto, non si era arreso in tutti quegli anni di lontananza e non aveva nessuna intenzione di farlo ora.
    Samantha gli sembrava così fragile in quel momento, con l’espressione smarrita nello sguardo, era come una farfalla stupenda intrappolata dalla sua convinzione di non saper volare, eppure sul suo dorso spuntavano le ali più belle che si fossero mai viste, solo che lei credeva di non saperle usare. Era la sua farfalla smemorata.
    ”Chi altro ti ha chiamata Samantha?” La voce di Adam era pregna di speranza, chissà che non si trattasse di qualche loro vecchio amico in comune, qualcuno a cui potersi rivolgere per affrontare in due quella situazione che aveva del surreale solo a pensarla. Temeva di non riuscire ad esserle di aiuto da solo. E se non avesse mai riacquistato la memoria? Pochi istanti dopo quella sua luminosa speranza venne rotta del tutto dalle parole che gli arrivarono dritte al petto, squarciandogli la pelle e ferendo direttamente il cuore: ”No, mi dispiace.” non mi ricordo di te, sarebbe stato il seguito della frase. Pensarlo era un conto, sentirglielo dire a voce altra era straziante perché era reale, tangibile, un dolore concreto provocato da parole affilate come lame.
    D’improvviso un rumore allegro e festoso irruppe nel gelo di quell’attimo di silenzio che era calato tra di loro; Adam non sapeva come risponderle e per fortuna non dovette farlo perché la ragazza, nonostante il disagio iniziale, lo trascinò più vicino alla folla e ai saltimbanchi che repentinamente avevano animato Camden Town di gioia e colori. ”Se ti dicessi che in realtà non è la prima volta che li vediamo insieme, mi crederesti?” Gli uscì di getto, spontanea quella risposta, mentre stringeva più forte la mano di lei, solo per un breve istante. Avevano assistito a diversi spettacoli dei saltimbanchi in passato e si erano sempre divertiti, ricordavano persino a memoria alcune delle storie cantate dai giullari, ma quel ‘noi’ gli pareva più lontano che mai.
    ”Sei la compagnia più gradita degli ultimi anni, Samantha. Dico davvero.” Le rispose, notando quell’occhiata di sottecchi che lei gli aveva lanciato. Era tutto così strano, doversi trattenere con lei, non poterla stringere e sollevarla in aria per festeggiare il loro ritrovamento. Nulla. Non poteva fare nulla di tutto quello che il suo istinto gli gridava di fare. Vederla così perplessa per ogni sua affermazione non era altro che la conferma che la sua Samantha non c’era più, ma che era nascosta in fondo da qualche parte in quel corpo identico alla vecchia Sam di un tempo.
    ”Tu, un disastro? Sei sempre stata una ragazza molto attiva, sai persino cavalcare. Non sei mai stata una tipa scoordinata.” Gli occhi di Adam erano puntati su un punto lontano dell’orizzonte, le sue iridi guardavano al di là del cielo e degli spazi terreni, erano al di là del tempo, lontane nel passato a ricordare tutte le cavalcate al tramonto e le gare di corsa per vincere un semplice bacio dalla sua amata. Si riebbe scuotendo la testa, come poteva far vedere anche a lei ciò che vedeva lui nella sua mente? La sentì ridere, ma il suo viso era contratto, c’era incertezza in lei, probabilmente non gli credeva: un perfetto sconosciuto la stava riempiendo di informazioni su una persona che lei neanche sapeva di essere.
    Quando Samantha gli chiese chi era Tom gli venne da ridere, gli tornarono in mente tutte le volte che lei e il loro amico tentarono di insegnare anche a lui quel gioco con le mele, ma Adam non ne voleva sapere, non la trovava una cosa divertente e invece alla fine riuscirono a convincerlo e a farlo diventare un discreto giocoliere. ”Tom? Tom era un nostro amico, uno dei saltimbanchi più giovani che abbia mai conosciuto in vita mia, una vera lenza! Lo abbiamo conosciuto durante il suo primo spettacolo, proprio qui a Camden Town. Tu lo consolasti perché gli erano cadute le mele a terra e gli dicesti che la prossima volta che vi sareste incontrati sarebbe stato bravissimo e gli chiesi di insegnarti a lanciare le mele in aria…” Si interruppe, rendendosi conto che le stava raccontando del suo passato come se fosse tutto normale, come se lei sapesse, ma non era così. Abbassò per un attimo lo sguardo e poi lo posò nuovamente su di lei, prima sulle loro mani ancora intrecciate e poi sul suo volto che in quel momento gli sembrava più pallido, forse era la luce? No, vide Samantha cedere e cadergli addosso, sorreggendosi a lui per non finire a terra. Adam l’afferrò al volo e la prese in braccio, portandola in un punto più isolato del mercato per farle riprendere aria, l’adagiò piano su un muretto poco distante e la vide arrossire, chissà cosa le passava per la testa in realtà in quel preciso momento. La lasciò sola per qualche istante per andare a prenderle una cosa che la vecchia Sam avrebbe adorato, un frutto per rimetterla in forze, forse le sue parole e la sua presenza l’avevano destabilizzata più di quanto credesse. Le si avvicinò porgendole una mela rossa e ricevette proprio la risposta che sperava, quello era ancora il suo frutto preferito. Le rivolse un sorriso raggiante, aveva trovato qualcosa che era ancora intatto in lei, qualcosa che non era cambiato. Chissà cos’altro c’era in lei che non era mutato, che era rimasto uguale, quello poteva essere un punto di partenza per farle tornare alla mente qualche ricordo, forse!
    Aveva iniziato a piovere mentre si perdeva nei suoi pensieri, così allungò la mano in direzione di Samantha per farsi seguire, non era pronto a lasciarla andare via, ma la ragazza gli rispose parlando di un certo principe Julien che l’avrebbe di certo cercata e di un castello. Di cosa stava parlando?
    ”Chi è Julien?” Una nota di gelosia gli colorò la voce, chi diamine era adesso questo tizio? Per di più era un principe, era per caso il suo fidanzato? I suoi occhi si erano scuriti a quel pensiero, non avrebbe sopportato che qualcun altro la toccasse in alcun modo. Non ci aveva pensato, e se quello fosse… ”E’ il tuo fidanzato?” C’era più stizza di quella che avrebbe voluto lasciar trapelare dal suo tono di voce, ma non riusciva proprio a mascherare quell’irritazione che gli stava risalendo lentamente dentro. Poi si rese conto nuovamente che lei non sapeva, che lei non capiva e allora chiuse gli occhi, portandosi le mani sul volto. Quella era una prova davvero difficile per lui. ”Scusami, non intendevo essere scontroso con te. Mi dispiace, Sam.” Le strinse le mani nelle sue e s’inginocchiò per sistemarsi alla sua stessa altezza. ”Se verrai con me ti prometto che non ti farò del male in alcun modo e ti riporterò io stesso a casa… a castello. Mi faresti l’onore di seguirmi?” La guardò intensamente negli occhi, cercando di far trasparire la sua sincerità, non le avrebbe mai fatto del male, anzi, l’avrebbe difesa ad ogni costo da ogni persona che avesse cercato di fargliene. Non seppe ben dire quanto rimasero in silenzio a guardarsi, ma ad un certo punto Samantha si alzò lasciandogli intuire che lo avrebbe seguito. Adam le rivolse un sorriso bagnato, inumidito dalla pioggia che gli scorreva sul viso, il percorso dei rivoli sulla sua pelle venne modificato dalle sue labbra distese per la felicità. Lasciò andare la mano destra della ragazza, stringendole ancora l’altra, così da poterla guidare fuori dal mercato, sapeva perfettamente dove portarla, aveva in mente un posto che si trovava in una traversa di Camden Town, un luogo che forse poteva risvegliarle la memoria.
    Adam si fece seguire in silenzio, camminando adagio tra i banchi finché non scorse la familiare traversa alla loro destra, si voltò verso la ragazza indicandole col capo la via accanto e svoltò, sperando che lei continuasse a fidarsi e che non gli lasciasse la mano d’improvviso scappando via da lui. Forse stava osando troppo, ma doveva tentare. Si addentrarono nella via che a causa della luce fioca della pioggia non appariva poi così rassicurante, lì una volta vi erano una serie di edifici abbandonati che erano stati risistemati per ospitare nuove attività e case. Era proprio in una di quelle strutture che voleva portarla, una volta lì avevano festeggiato il compleanno di Samantha insieme a Matthew, il fratello di lei. Sapeva che al posto di quell’edificio abbandonato adesso c’era un locale che ospitava una piccolissima sala da tè all’interno di una drogheria, ma parecchie cose del vecchio arredamento erano rimaste uguali e forse potevano essere uno stimolo per lei.
    Adam si fermò davanti alla facciata rinnovata di quello che una volta era il rudere del Kelvingrove Cafe e sorrise, lasciandosi inondare dai ricordi d’infanzia di lui e Matthew che giocavano lì dentro fingendo che fosse un castello assediato o una nave pirata, in base all’umore del momento. A suo tempo quel posto era pericolante, quindi non ci portavano Samantha, ma lei si impuntò e alla fine dovettero cedere e cominciarono a portarla con loro, infatti festeggiarono lì il suo tredicesimo compleanno, con un dolce casalingo e tante risate. Questo era il loro passato, costellato di gioia e allegria, a volte anche di eventi dolorosi, ma quando loro tre erano insieme niente era impossibile.
    ”Siamo arrivati. Ti prego, fidati di me… entriamo?”



    It’s only after
    we’ve lost everything
    that we're free to do anything

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    Nichi bella! Nel ricordo c’è la seconda foto quella della sala da tè che non corrisponde all’immagine che ho descritto, cioè è la versione “tempi di gloria” di quel che io ho scritto. Non ho trovato un’immagine in versione “luogo abbandonato” per quel luogo, così ti ho messo quella per farti capire com’era un tempo e per lasciarti immaginare come potrebbe essere in rovina!
     
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    Elizabeth "Samantha" Montgomery » human
    I was scared, I was scared
    tired and underprepared
    but I'll wait for it

    if you go, if you go
    and leave me down here on my own
    then I'll wait for you

    (In my place – Coldplay)

    Tante cose erano cambiate nel corso degli ultimi anni, non c’erano più le lunghe passeggiate spensierate, non era più tempo di stare seduti su un muretto a prendere il sole, scambiando qualche battuta e stuzzicandosi a vicenda per poi concludere tutto con un bacio. Era iniziato tutto quasi per caso, senza che nessuno dei due se ne rendesse bene conto e poi lentamente quel sentimento li aveva invasi completamente, senza lasciare spazio a nient’altro. Lei non riusciva più ad immaginare una vita senza di lui e per questo l’idea di doversi separare per un certo tempo, anche se limitato, non le piaceva. Sapeva che avrebbe pensato a lui ogni giorno, che si sarebbe chiesta costantemente, istante dopo istante, se lui fosse ancora vivo, da qualche parte e non riusciva a sopportare un pensiero come quello. Come avrebbe fatto a superare la guerra se il suo cuore le avesse dato ogni giorno un colpo dopo l’altro all’idea di non sapere nulla sul suo conto? Coscientemente sapeva che non potevano continuare ad andare avanti così, le strade si erano fatte pericolose e non era più così semplice passare da un luogo all’altro senza rischiare la vita, ma come avrebbe fatto lei a sopravvivere a tutto quel silenzio da parte sua? Sapeva che avrebbe passato ogni minuto libero a guardare fuori dalla finestra, sperando di vederlo arrivare con il solito sorriso sulle labbra e quell’aria da sbruffoncello che in fondo le aveva sempre fatto battere il cuore. Fingeva che non fosse così, spesso faceva la sostenuta, ma le bastava guardarlo in volto, vederlo arrivare da lontano con la sua camminata sicura e ferma, per sentire il cuore accelerare e per lasciarsi andare un sorriso tranquillo. Le bastava guardarlo per sentire un profondo senso di pace, ma se non avesse più potuto farlo? Se le loro strade si fossero divise per sempre? No, questo non poteva assolutamente accettarlo. Le era già difficile pensare che quella guerra catastrofica fosse arrivata, non poteva neppure sopportare il pensiero che quella sarebbe stata la fine per loro. Avrebbero trovato un modo. lo guardò negli occhi, mantenendo quella breve distanza che lei aveva imposto quando lui le aveva detto che purtroppo non si sarebbero potuti vedere per un po’, lui doveva stare con la sua famiglia, doveva combattere al suo fianco, aiutare a liberare le strade da tutte quelle creature impazzite, e lei non poteva lasciare la sua per stare con lui. Sebbene anche lei fosse ormai perfettamente in grado di maneggiare un’arma suo padre le aveva imposto di rimanere in casa con sua madre, al sicuro, lì dove sperava che nessuna minaccia sarebbe giunta a colpirli, ma si sbagliava. Non poteva sapere che proprio quella scelta avrebbe portato alla morte di sua moglie e che da lì Samantha avrebbe agito di nascosto per aiutare i ribelli, unendosi alle loro fila. Ma questo nessuno poteva saperlo, tanto meno Adam, che ora se ne stava lì, ritto in piedi, serio, ad attendere una risposta da lei, che non aveva ancora aperto bocca. Il fatto che odiasse quella situazione glielo si poteva leggere chiaramente in volto, senza neppure il bisogno di sforzarsi, ma era tutto il resto che lui non riusciva a capire. -Sam? – le chiese, cercando di invitarla a parlare e renderlo partecipe dei suoi pensieri. -Sai che non possiamo fare altrimenti, lo vorrei quanto te. Credimi. – disse, e allungò piano una mano per accarezzare il braccio di lei, facendole sentire la sua presenza. Non sapeva quando sarebbero riusciti a vedersi di nuovo e voleva godere di ogni momento che avevano a disposizione. -Lo so, ma non mi piace. – rispose lei, rivolgendo lo sguardo a terra, senza muoversi. Continuava a rimuginarci su da minuti, ma non era riuscita a trovare nessuna alternativa valida purtroppo e la cosa la faceva infuriare. Non voleva accettare di doverla dare vinta a quelle creature, di dividersi da lui per tenerlo al sicuro, ma sapeva che purtroppo non c’era molto altro da fare. Bofonchiò qualcosa di imprecisato, mugugnando tra sé e sé, prima di prendere il coraggio con un sospiro e dirgli quello che aveva in mente da quando lui aveva aperto bocca. -So che sai bada a te stesso, ma promettimelo. – il suo sguardo si fece più serio, così come la sua voce. Era un momento particolare e quello non era un argomento da trattare con leggerezza, quello poteva essere il loro ultimo incontro. Gli stava chiedendo di farlo perché ne aveva bisogno, aveva bisogno di credere che qualcosa sarebbe sopravvissuto a quell’abominio, che non tutto sarebbe andato perduto e che avrebbero avuto ancora qualcosa da rimettere a posto quando le acque si fossero calmare. -Promettimelo Adam, dimmi che quando questa guerra sarà finita tu tornerai da me, promettimi che starai attento. – disse ancora, mentre la sua mano correva veloce alla sua, afferrandola con forza, come se temesse che se non lo avesse fatto lui sarebbe sparito senza neanche salutare e non sarebbe tornato mai più. Non riusciva a sopportare l’idea che quella guerra li avrebbe divisi per molto tempo, che per tanti giorni non sarebbero riusciti a vedersi, ma voleva credere che sarebbero riusciti a farlo appena tutto sarebbe finito e se fosse stato lui a prometterglielo tutto sarebbe apparso più reale. Perché lui riusciva sempre a tranquillizzarla, e ora più che mai ne aveva un incredibile bisogno. Erano rare le occasioni in cui lo chiamava Adam, lo faceva solo quando la situazione si faceva molto seria o quando doveva sgridarlo per qualcosa e in quell’occasione non aveva potuto farne a meno. -Promettimi che ci ritroveremo. – continuai e questa volta i suoi occhi erano lucidi e non sapeva quanto ancora sarebbe riuscita a trattenere le lacrime. Non aveva mai pianto davanti a lui, non era una che piangeva lei, ma in quel momento non riusciva a farne a meno. Si sentiva come se il suo mondo stesse crollando, pezzo dopo pezzo, e lei non riuscisse a fare nulla per impedirlo. Lui strinse la sua mano con più forza, posando delicatamente una mano sotto il suo mento, accarezzandolo appena, per poi lentamente farle sollevare il volto verso il suo. -Te lo prometto. – le disse, con tutta la sua sincerità. Anche lui voleva crederci, con la stessa intensità di lei, perché neppure per lui era semplice sopportare l’idea. Pochi istanti, poi si spinse in avanti e la abbracciò, stringendola forte tra le sue braccia, come spesso aveva fato in passato. Lei sembrava così minuta tra le sue braccia, ancora più piccola di quanto fosse davvero e forse era proprio quello a farla sentire così al sicuro con lui. lei gli cinse la schiena con le sue braccia esili, stringendosi con ancora più forza a lui, che le posò un delicato bacio sulla testolina scura mentre lei si lasciava andare a poche e semplici lacrime contro il suo petto. Avrebbero superato anche quello, se lo sentiva, voleva crederci con tutte le sue forze, ma in quel momento si sentiva soltanto una ragazzina come tutte le altre, con tutta la fragilità possibile.
    Si sarebbero ritrovati, lo sapeva, dovevano solo avere un po’ di pazienza. E l’avrebbe avuta, tutto pur di stare ancora con lui. Qualche attimo poi si tirò lentamente su, sollevandosi sulla punta dei piedi per poter raggiungere il suo volto più comodamente, lo guardò negli occhi per qualche istante, perdendosi nei suoi, prima di spingere il volto ancora un po’ più avanti, portando le loro labbra a congiungersi in un bacio pieno di mille emozioni e sentimenti, un bacio che poteva essere un addio, o forse, più semplicemente, un intenso arrivederci.


    Continuavo a guardarlo, forse un po’ troppo insistentemente, ma non riuscivo a farne a meno. C’era qualcosa di terribilmente familiare nel suo volto e allo stesso tempo di assolutamente estraneo. Era snervante la sensazione di conoscere qualcuno, ma allo stesso tempo essere quasi certi di non averlo mai visto prima. Avrei voluto fargli così tante domande, interrogarlo su quello che era il mio passato se lui davvero lo conosceva e approfondire la sua presenza all’interno della mia vita. Avrei voluto lasciarmi andare a tutti quei pensieri che mi passavano per la testa e renderli vivi e vividi pronunciandoli ad alta voce, ma ogni volta che ero sul punto di farlo tornavo indietro. Sarebbe sicuramente stata una svolta all’interno della mia vita se fosse stato tutto vero, ma se così non era? Poteva essere chiunque e il fato che io non ricordassi nulla non era d’aiuto. Forse era semplicemente per questo che non riuscivo a chiedere niente, temevo di illudermi per una menzogna, temevo di cadere in una trappola, o forse semplicemente non avevo il coraggio di affrontare la verità, non da sola. Non pensavo di essere abbastanza forte. Più lo guardavo e più volevo capire, e allo stesso fuggire, il più lontano possibile, dove nulla avrebbe potuto turbarmi o farmi vacillare. Mi sentivo così fragile e sola che ogni ostacolo o problema mi appariva insuperabile e ogni cosa mi appariva molto più grande di quanto fosse davvero. forse lui era la chiave, forse poteva eliminare ogni mio dubbio, ma se così non fosse stato? Potevo davvero fidarmi di lui?
    Strinsi appena quella collana tra le mani quando mi disse che quella collana era mia, come se un piccolo pezzettino tornasse al suo posto, in maniera imperfetta, ma quasi stabile. Se davvero quel ciondolo apparteneva a me ed era un pezzo del mio passato, allora ero felice che fosse rimasto con me per tutto quel tempo e che qualcosa, dopotutto, mi fosse rimasto. Non sapevo chi fossero le persone che vi erano ritratte all’interno, né chi fosse quella Elizabeth dell’incisione, ma magari era proprio da lì che potevo ripartire per fare un po’ di luce in tutta quell’oscurità. Avevo sempre avuto il dubbio che potesse trattarsi di qualcuno della mia famiglia perché quelle persone mi assomigliavano, ma non avrei saputo dire chi per l’esattezza. Quando mi chiese chi altro mi aveva chiamato Samantha in passato esitai qualche istante prima di rispondere. La sua voce si era fatta un po’ più alta, probabilmente speranzosa di ricevere la risposta che desiderava, ma non sapevo se sarei riuscita a dargliela. Non sapevo se lei la conoscesse o meno, né avrei saputo spiegargli bene quell’incontro bizzarro. -Una ragazza, lavora in un orfanotrofio gestito dalla chiesa, al limitare della foresta. – tentai di spiegare, abbassando appena lo sguardo, pensierosa. -Mi ha detto di chiamarsi Demetra. – continuai poi, sperando così di rispondere al meglio alla sua domanda. Era da un po’ di tempo che non la vedevo, non sapevo neppure se si trovasse ancora lì a dire il vero. Ero tornata alcune volte da quando l’avevo incontrata la prima volta, ma da quando era successo quello che era successo tra me e Julian non avevo più avuto neppure il coraggio di andare da lei. Mi sembrava di stare meglio quando mi trovavo con lei, di riuscire a riportare qualcosa alla mente, forse persino il rapporto che potevamo avere avuto in passato, ma ad un tratto la cosa mi aveva spaventata e non ero riuscita ad andare avanti. Julian mi aveva promesso che mi avrebbe aiutata, che sarebbe stato al mio fianco in quella ricerca, ma quando mi ero accorta che non doveva aver parlato seriamente, mi ero sentita incredibilmente perduta. Avevo pensato di poter contare su di lui, di avere una spalla a cui poggiarmi durante quella ricerca apparentemente disperata, ma ora che non avevo neanche più lui non sapevo come avrei fatto.
    La situazione si era fatta un po’ più tesa e fui felice che quel gruppo festante l’avesse interrotta, portando un po’ di brio e nuova allegria, che parve spazzare via ogni altra cosa nella mia mente. Erano così bizzarri ed ero stupita di non averli mai notati prima. Se davvero si esibivano a Londra una volta al mese, dove ero stata io per tutto quel tempo? Come avevo fatto a perdermeli tutte le volte? Mi chiese se gli avessi creduto se lui mi avesse detto che li avevamo visti insieme in passato, stringendo con appena più forza la mia mano, ma non seppi cosa rispondergli. Purtroppo riuscivo a credere a tutto e a niente allo stesso tempo. Abbassai appena il capo, un po’ imbarazzata, quando mi disse che ero la compagnia più gradita per lui negli ultimi anni. Mi sentivo un po’ a disagio con tutta quella faccenda, senza sapere bene cosa rispondere, senza sapere bene che cosa lui intendesse con quelle parole. Forse mi ero fatta un’idea su di lui, ma preferivo non approfondirla, non sapere, non ancora. -E’ strano quando mi chiami così, non ho davvero idea di chi sia questa Samantha. – dissi poi, con voce tranquilla ma un po’ triste, tentando di spiegargli che purtroppo io non avevo davvero nessun ricordo della ragazza che lui poteva aver conosciuto in passata, che lei era oramai come un’estranea per me, sempre che fosse esistita davvero. Era strano pensare a me stessa come quella ragazza, quella sconosciuta che stava cercando di imporsi prepotentemente nella mia vita e che io non sapevo se lasciare entrare o meno. Dovevo fidarmi? Cercare di recuperare i ricordi di questa Samantha? Dovevo credere di essere davvero lei?
    Non lo sapevo, ma quando mi disse che non ero mai stata un disastro o imbranata e che ero persino brava a cavalcare, lo guardai niente affatto convinta. -Oh no, non credo. Penso che cadrei a terra al primo tentativo. – gli dissi, abbastanza convinta di quelle parole, sebbene in effetti dal mio risveglio non avessi mai provato a salire su un cavallo. Julian ne aveva uno, ma non gli avevo mai chiesto di poter provare e ora come ora non pensavo lo avrei fatto, non con il rapporto che avevamo. C’era stato un tempo in cui avevo pensato d potergli chiedere ogni cosa, ma quel tempo era ormai lontano. Mi parlò ancora di Tom, quando io glielo chiesi e mi disse che era un saltimbanco molto giovane che avevamo conosciuto al suo primo spettacolo e che io lo avevo incoraggiato e consolato quando aveva fatto un errore nella sua esibizione. Mi sembrava assurdo che io fossi davvero riuscita a fare una cosa come quella. Non aveva neppure un amico al castello, non ero mai riuscita ad essere gentile o simpatica con nessuno, possibile che nella mia vita precedente invece lo fossi stata con così tanta leggerezza? Era stato comunque quel Tom a insegnarmi, evidentemente, un’altra volta che ci eravamo incontrati. Continuavo a non esserne molto sicura, ma l’immagine che si stava lentamente delineando nella mia mente era molto affascinante. Una volta tornata al castello avrei provato quel giorno, per vedere se in caso in me c’era ancora qualcosa di quella ragazza, o se ogni cosa era sparita nel nulla, con il tempo. Parlava con leggerezza e tranquillità, forse ancora più lieto di me nel raccontare, come ogni cosa fosse stata assolutamente normale, ma poi si fermò, a metà della frase, abbassando lo sguardo per qualche attimo, prima di riportarlo su di me.
    Fortunatamente mi sorresse quando ebbi un leggero mancamento, dovuto all’affollamento di tutti quei ricordi e pensieri che mi avevano lasciata spaesata per un po’, affaticando la mia mente nel tentativo di comprendere più cose possibili. Era sempre faticoso riuscire a ricordare qualcosa, anche se si trattava sempre e soltanto di minuscoli frammenti, mi chiedevo come sarei stata se fossi riuscita a ricordare qualcosa di un po’ più importante. Si prese cura di me andando a recuperare qualcosa che avrebbe potuto rimettermi in forze e fu molto gentile con me, cosa che nessuno prima, a parte Julian nel suoi tempi migliori, aveva fatto. Era così gentile e premuroso che sarei rimasta lì per sempre, solo per ricevere ancora quel tipo di attenzioni che per anni non ero mai riuscita a provare con così tanta sincerità, ma sapevo che era sbagliato. Io non sapevo niente di lui, non ricordavo, con che cuore potevo rimanere al suo fianco per tutto quel tempo con il rischio di farlo soffrire per quella vicinanza così bizzarra? Non doveva essere semplice neanche per lui rapportarsi a qualcuno di cui si sapeva tutto, che invece non sapeva più niente.
    Quando mi chiese chi fosse Julian lo guardai leggermente stranita, possibile che non lo sapesse davvero? Mi resi conto che averlo chiamato per nome forse doveva aver allontanato i sospetti da lui dato che nessuno al di fuori di una cerchia ristretta chiamava i Lancaster per nome. Mi ero talmente abituata a chiamarlo in quel modo per il tempo in cui ci eravamo avvicinati, che ora mi sembrava quasi la cosa più naturale del mondo. Quando mi chiese con una certa stizza se era il mio fidanzato io non riuscii a soffocare del tutto una risata. No, decisamente non lo era. Si scusò subito dopo, per essere stato un po’ scontroso, ma io scossi appena la testa, non aveva nulla di cui scusarsi. -Non lo è. – iniziai, rispondendo prima a quella che sembrava essere la risposta che più gli interessava. -A dire il vero non ho neanche degli amici al momento, credo che un fidanzato sia l’ultima delle mie preoccupazioni.- gli dissi, con una punta di ironia, che lasciava però intendere quanto quella situazione di solitudine mi pesasse, in fin dei conti. Mi resi soltanto dopo conto di ciò che avevo detto e dell’effetto che, forse, questo avrebbe potuto fare su di lui, se ero riuscita a comprendere qualcosa di ciò che ci aveva legato in passato, ma oramai era detto e, in fondo, era la verità. Volevo ritrovare me stessa, soltanto dopo avrei pensato al resto. -Julian è Julian Lancaster, il principe, il più piccolo dei figli del re. – cercai di spiegare meglio, cercando di fargli capire quanto potesse essere assurdo il pensiero di un nostro avvicinamento sentimentale. Forse non poi così assurdo in effetti, dato che in un primo tempo ci avevo sperato anche io, ma quel pensiero era ormai morto, coperto dal fastidio che nutrivo ora nei suoi confronti. Ora la situazione sembrava molto più difficile per lui, che per me. In effetti c’erano delle cose di me che non sapeva, ossia tutta quella parte che riguardava il mio risveglio. Lo guardai un attimo, incerta sul da farsi. Dovevo raccontare qualcosa? Lui avrebbe voluto saperlo? -Lavoro per lui, al castello. – iniziai, cercando di fargli capire prima di tutto perché gli avessi detto che dovevo tornare lì. -Quando la guerra è finita è stato lui a trovarmi, svenuta sulle rive del fiume. Mi ha salvata e portata al castello, ed è lì che sono rimasta. – spiegai ancora, dandogli qualche altra piccola informazione, per poi fermarmi. Non sapevo quanto di tutta quella faccenda gli interessasse, quindi mi fermai e lo guardai negli occhi, come per dirgli che se c’era qualcos’altro che voleva sapere, allora sarebbe dovuto essere lui a chiedere.
    Mi disse che se lo avessi seguito mi avrebbe riportata lui stesso al castello e che non mi avrebbe fatto alcun male. Mi guardava intensamente, con una sincerità disarmante che per un attimo mi fece sentire un brivido caldo lungo la schiena. Rimasi a guardarlo per qualche istante, sospesa nel silenzio, mentre le gocce di pioggia ancora battevano sui nostri volti. Lo guardai di nuovo, ma non riuscii a cogliere altro che la sua sincerità, così annuii, piano, alzandomi in piedi. Lui lasciò andare una delle mie mani, ma tenne stretta l’altra, guidandomi piano al di fuori del mercato. Misi al sicuro la mela in una delle tasche della gonna, magari l’avrei mangiata più tardi. Continuai a seguirlo, con passo lento ma regolare, trovando ora un po’ bizzarra la presa tra le nostre mani, ma non dissi nulla. Lo seguii verso stradine sempre più strette e poco illuminate, che non avevano nulla di confortevole o di rassicurante. Lo guardai di sottecchi e mi chiesi se avessi fatto bene a seguirlo, ma quando si fermò davanti ad un piccolo negozio, ogni dubbio sparì. Sembrava un posto accogliente e tranquillo, l’unico rimesso a posto in mezzo ad una via che mostrava ancora i segni della guerra, o forse di qualcosa che era avvenuto ancora prima. Rimasi ferma, ad osservare quell’edificio per qualche istante, cercando di capire bene che cosa fosse. Mi sembrava un luogo come tanti, un piccolo locale come troppi altri avevano invaso le strade di Londra, per dare un po’ di svago a chi era sopravvissuto. Mi invitò a fidarmi di lui e seguirlo all’interno e io annuii, abbastanza tranquilla, aspettando che lui aprisse la porta prima di entrare. L’interno era ancora più accogliente dell’esterno, con colori caldi e molto allegri che sapevano metterti di buon umore ad un primo sguardo. Mi guardai attorno, incuriosita da quell’atmosfera festosa che non aveva alcun apparente motivo. -La sala da thè è da quella parte se volete accomodarvi. – ci disse una signora sulla quarantina, con un sorriso, invitandoci con un gesto della mano a proseguire. Io la guardai per un istante, poi mi voltai verso Adam, come per chiedergli se dovessimo proseguire o meno, per poi andare avanti. Era tutto così strano eppure tranquillo al tempo stesso e cercai quindi di non riflettere troppo o magari avrei rovinato quell’atmosfera tranquilla. In quella piccola stanza, ancora più calorosa della precedente, l’arredamento era studiato in modo da farti sentire completamente a tuo agio, a cominciare dai divanetti rivestiti con un tessuto rosso e oro molto grazioso. Avanzai in direzione di quello più lontano dalla vetrata, per stare un po’ in disparte, lontana dallo sguardo di qualunque passante, fermandomi un attimo prima di sedermi. -Va bene qui? – gli chiesi, attendendo una sua risposta prima di prendere posto. Non sapevo se lui fosse stato lì molte volte e avesse un posto preferito, ora come ora io preferivo non espormi troppo alle occhiate di chiunque, mi faceva ancora sentire a disagio. Sistemai delicatamente la gonna sulle ginocchia nel sedermi, attendendo che anche lui prendesse posto di fronte a me prima di parlare di nuovo. -Non sembra un posto molto vecchio, che cosa si trovava qui un tempo? – chiesi, un po’ incuriosita da quella faccenda. Probabilmente lui doveva essere stato legato alla vita precedente di quell’edificio, o forse no, non potevo saperlo. La signora di prima ci raggiunse in pochi minuti, lasciandoci alcuni eleganti menù che doveva aver scritto lei di suo pugno, lasciandoci poi di nuovo da soli. Io ne presi uno tra le mani e iniziai a sfogliarlo, senza trovare nulla di particolarmente familiare in esso, quindi optai per qualcosa di un po’ più bizzarro forse. -Cosa pensi che potrebbe piacermi? – gli chiesi, un po’ per metterlo a prova e un po’ perché, effettivamente, non avevo idea di cosa fossero tutte quelle cose.


    Don't want your hand
    this time I'll save myself
    Maybe I'll wake up for once

    « swän » code esclusivo del London gdr. Non usare senza il mio permesso.

     
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    On my way to you

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    ADAM HARRISON» Umano/Ribelle


    You know I'd fall apart without you, I don't know how you do what you do
    'Cause everything that don't make sense about me, makes sense when I'm with you
    (…)
    'Cause I wanna wrap you up, wanna kiss your lips
    I wanna make you feel wanted and I wanna call you mine
    Wanna hold your hand forever
    Never let you forget it
    Yeah, I wanna make you feel wanted
    (Wanted - Hunter Hayes)


    ”Questo non è un addio, lo sai vero? Ci ritroveremo, costi quel che costi staremo di nuovo insieme.” Stringeva Samantha tra le sue braccia, mormorando quelle parole tra i suoi morbidi capelli, respirandone l’odore, sapendo che quella era l’ultima volta che avrebbe potuto farlo. Cosa ne sarebbe stato di loro adesso che la guerra era alle porte? Doveva mostrarsi forte per lei, ma aveva i suoi stessi timori che gli straziavano il cuore. Le sue parole erano sature di desiderio di ritrovarsi non appena quella follia fosse terminata, perché giusto di una follia si trattava: i vampiri avevano tramato nell’ombra per anni per riuscire a sferrare un attacco così imponente e inaspettato per gli attuali regnanti. Mancava poco all’arrivo dei vampiri alle porte di Londra, ma l’aria sapeva già di morte e di dolore. A quel pensiero strinse Samantha ancora più forte. ”Questo è solo un arrivederci, Sam, te lo prometto.” Un ultimo bacio e poi la guerra…

    Aveva mantenuto la sua promessa, l’aveva cercata ovunque, in ogni angolo di Londra, persino nei canali sotterranei della città dove aveva trovato una moltitudine di ribelli nascosti dal nemico, eppure di lei nessuna traccia; l’aveva cercata negli edifici abbandonati, in ogni singola chiesa di Londra ancora in piedi e la lista proseguiva all’infinito ed era piena di luoghi impensabili per la ricerca di una persona scomparsa. Si era umiliato davanti a sua cugina che aveva cercato di farlo desistere da quella malsana ricerca che lo aveva portato a perdere vigore nella mente e nel corpo, aveva perso così tanto peso che sul suo viso si erano scavate delle fosse troppo profonde per un uomo massiccio come lui. Ci aveva messo anni a ritrovare il senno e quando lo aveva fatto riuscì a rimettersi in sesto, aveva ricominciato a mangiare e ad allenarsi insieme a Julia (sua cugina) nel covo dei ribelli, ma non aveva mai smesso di guardarsi intorno alla ricerca di lei, di Samantha. Ogni ombra femminile che gli passava accanto poteva essere lei, una scia di profumo simile alla sua lo faceva voltare e gli faceva impazzire lo sguardo che correva da una donna all’altra, sperando solo di vedere lei. Erano passati anni anche da allora e non l’aveva mai incontrata, stava iniziando a perdere le speranze e proprio quando la luce dentro di lui stava iniziando a spengersi, eccola lì a Camden Town. Dov’era stata in tutti quegli anni? Possibile che non si fossero mai incrociati per le strade neanche una volta? Il destino aveva le sue vie e non accettava scorciatoie, dopo tante strade sbagliate aveva imboccato quella giusta per puro caso. In ogni tentativo errato il destino e il suo desiderio di ritrovarla lo avevano portato fino a lì, fino al mercato che avrebbe nuovamente stravolto la sua vita.
    Samantha lo fissava insistentemente, con l’aria perplessa dipinta sul volto a lui così familiare, eppure in quel momento non riusciva a capire cosa le passasse per la testa. Perché lo guardava così? Stava cercando di ricordarsi di lui? Ma soprattutto credeva alle sue parole? Era difficile darsi delle risposte essendo emotivamente coinvolto in quel momento, anche lui la scrutava silenziosamente alla ricerca di segnali di qualsiasi tipo per capire come approcciarsi a lei. Non era libero di essere se stesso, doveva tenersi al suo posto senza accelerare le cose perché era evidente il suo disagio e non poteva permettersi di perderla di nuovo.
    La vide indugiare con le mani sul suo medaglione mentre gli domandava se per caso non appartenesse a lui. Quella domanda lo scosse, non ricordava nemmeno la collana che le aveva donato sua madre, ma non si perse d’animo e le disse che quella era sua e di nessun altro. Alle sue parole la ragazza strinse il medaglione senza dire una parola, forse voleva dire che gli aveva creduto. Non osò indagare oltre, non voleva inondarla di domande, doveva essere cauto. Non aveva mai avuto a che fare con una persona privata dei suoi ricordi: doveva andarci piano o tempestarla di racconti sul suo passato? Aveva scelto la prima linea di percorso, ma non sapeva se era quella giusta o quella sbagliata. Non sapeva più nulla.
    ”Demetra.” Sussurrò con aria pensierosa, quel nome non gli era nuovo. Ma certo! Molto probabilmente si trattava della ragazza che aveva vissuto in casa di Samantha quando era ancora una bambina, l’aveva conosciuta, era una buona amica di Sam, ma lui non ci aveva mai stretto un’amicizia veramente profonda. Non sapeva che lavorasse in un orfanotrofio, passati gli anni della guerra non gli era capitato di incontrare di nuovo quella ragazza e molto probabilmente non l’avrebbe nemmeno riconosciuta perché quando viveva a casa di Samantha era una bambina anche lei. ”Mi ricordo di lei, ma non la vedo da tantissimo tempo. Eravate due ragazzine quando me la presentasti per la prima volta.” L’accenno di un sorriso gli illuminò il viso per un istante, nella mente ebbe la visione di quella giovane donna che gli stava davanti, solo molto più piccola. Era un ricordo vivido il suo, abbagliante, peccato che Samantha non potesse vederlo. Quel pensiero lo rattristò, ma fortunatamente a rompere quell’atmosfera di disagio arrivò un gruppo allegro e rumoroso di saltimbanchi, accendendo Camden Town di colori e toni festanti. Adam lasciò che il suo sguardo si perdesse in quel turbinio di gioia caleidoscopica e per un istante dimenticò ogni problema, ma poi la realtà tornò a bussare prepotentemente alla sua porta con le parole che la ragazza al suo fianco pronunciò: ”Non ho davvero idea di chi sia questa Samantha.” Una lama nel petto avrebbe fatto meno male, sarebbe stato un colpo netto e indolore che avrebbe spento ogni filamento di vita in lui in un attimo, invece quello era come un fendente di striscio che lì per lì non lo si avverte, ma poi inesorabilmente consuma la sua vittima fino all’ultima stilla vitale.
    Adam non sapeva cosa risponderle, avrebbe voluto afferrarla per le spalle e scrollarle di dosso quel velo invisibile che la separava dalla verità. Era diffidente, era giusto così, ma non poteva vivere nella cecità più assoluta per tutta la vita. Possibile che fino a quel momento nessun altro si era preso la briga di aiutarla a ricordare chi fosse veramente? Forse non aveva nessuno. Dio, quante domande si rincorrevano nella sua testa, scontrandosi l’una con l’altra in un terremoto di parti sconnesse che non riuscivano a trovare un incastro. Chi era diventata la sua Samantha?
    ”Eri e sei tu, Samantha Montgomery. E se me lo permetterai, ti aiuterò a ritrovarla dentro di te.” Forse si era esposto troppo con quelle parole, aveva esagerato, ma la smania dentro il suo petto cresceva sempre più forte. Era come avere davanti una delicatissima bambola di cristallo e non poterla toccare per il timore di vederla andare in mille pezzi, eppure in lei un piccolo bagliore c’era, lo si poteva vedere risplendere attraverso le trasparenze del cristallo, quella luce candida che tremolava al suo interno, inafferrabile. Bisognava rompere l’involucro prezioso per riuscire ad afferrarla, ma se lo avesse frantumato in un solo colpo cosa sarebbe successo? Non doveva essere avventato, per lui era uno sforzo incredibile, abituato com’era a seguire l’istinto. Si passò le mani tra i capelli e non aggiunse altro, solo un verso di frustrazione lasciò la sua bocca, ma riuscì ad imbrigliare i suoi impulsi e a non proferire un’altra parola. Doveva solo attendere la sua reazione.
    Alzò lo sguardo su di lei quando gli disse che sarebbe caduta a terra al primo tentativo di montare su un cavallo. Quel pensiero contrastava con i suoi ricordi che aleggiavano nella sua testa come flebili fiammelle argentate che si aprivano al momento opportuno, mostrando le immagini di ciò che un tempo era stata: Lui e Samantha che cavalcano nella foresta appena fuori Londra, seguiti da Matthew che era più imbranato rispetto a loro e non riusciva a stare al loro passo. La gioia e il senso di libertà di quel momento esplosero dentro di lui con prepotenza. Perché non poteva essere di nuovo così? Perché doveva essere tutto tanto difficile?
    La ragazza gli chiese di raccontargli di Tom e Adam le rammentò il loro primo incontro, ma forse tutte quelle informazioni erano troppo per lei da sopportare perché ebbe un mancamento e lui l’afferrò prontamente, prendendola in braccio e allontanandola dalla folla. La fece accomodare su un muretto e andò a prenderle una mela per rimetterla in sesto. La sorprese con quel gesto perché lei non si aspettava che lui sapesse davvero quale fosse il suo frutto preferito, ovviamente non si fidava ancora ciecamente di lui e ne aveva tutte le ragioni. A riprova di ciò la ragazza iniziò a circuirlo, dicendogli che a castello avrebbero notato la sua assenza se non fosse tornata entro sera e che il principe Julian l’avrebbe mandata a cercare. La mente di Adam perse lucidità al sentire un nome maschile e scattò chiedendole se per caso quel Julian non fosse il suo fidanzato. La gelosia aveva avuto la meglio su di lui e non era riuscito a trattenersi. Quando vide che Samantha trattenne a stento una risata si rilassò un po’, era stato avventato come al suo solito.
    ”Tu hai delle persone che ti cercano da anni e invece pensi di essere sola. Hai degli amici… e non solo…” Nel dire ciò la sua voce si fece più bassa e cauta, mentre il suo sguardo era attento a captare ogni sua reazione, puntato direttamente nei suoi occhi scuri in cui avrebbe voluto perdersi, anche solo per qualche istante. Era davvero difficile rimanere lucido davanti a lei. ”So chi è…” Si portò una mano dietro la nuca con aria desolata. Non era uno sprovveduto sulla situazione politica londinese, anzi sapeva fin troppo ed era molto attivo con i ribelli, ma quando si trattava di lei tutto il resto perdeva importanza.
    ”Devo la mia riconoscenza per la tua vita ad un lurido succhiasangue?” Si voltò di scatto, dandole le spalle, furibondo. Un fott*tissimo vampiro si era preso cura di lei per tutto quel tempo e l’aveva tenuta lontana da lui, una di quelle viscide creature che aveva portato allo sterminio della sua famiglia. Era uno scherzo?
    Chiuse gli occhi e iniziò a respirare a fondo, sentiva la rabbia scorrergli nelle vene come lava incandescente, mentre le gelide gocce di pioggia gli battevano insistentemente addosso.
    ’Samantha, Samantha, Samantha…’ cominciò a ripetere il suo nome nella sua testa come un mantra, era l’unica maniera per far fluire via l’ira che aveva preso possesso del suo corpo e della sua mente. Nonostante cercasse di dirsi che doveva mantenere la calma per lei, non riusciva a riacquistare il controllo di se stesso. Strinse con forza i pugni, tremava violentemente, sentendo il crescente desiderio di prendere a cazzotti tutto ciò che gli capitava davanti.
    ’Samantha, Samantha, Samantha…’
    Tornò a voltarsi verso di lei, continuando a respirare a fondo e vedere il suo volto fece placare di poco i suoi bollenti spiriti. Non voleva evitare quell’argomento così dolente per lui, doveva solo riuscire a rimandarlo e a non far sì che la rabbia prendesse il sopravvento su di lui. Si inginocchiò davanti a lei promettendole di riportarla al castello sana e salva, le strinse le mani nelle sue che ancora tremavano. La ragazza colse la sincerità dei suoi intenti perché si alzò in piedi e si lasciò guidare per le vie del mercato fino a quello che una volta era il Kelvingrove Cafe. Una volta davanti al locale le chiese di fidarsi di lui ancora una volta e di seguirlo all’interno dell’edificio. Lei acconsentì. Vennero accolti da una donna di mezza età con un sorriso caloroso che gli indicò la porta d’accesso alla sala da tè. I due sfilarono tra i tavoli e per la prima volta Adam lasciò che fosse Samantha a guidarlo, lasciandole scegliere dove accomodarsi. Gli indicò un tavolino in un angolo del locale, in disparte. ”Qui va bene.” Normalmente l’avrebbe presa in giro per il suo essere un maschiaccio e le avrebbe detto che poteva benissimo spostarsi la sedia da sola, ma in quell’occasione Adam le si avvicinò, scansò di poco la sedia dal tavolo e attese che si accomodasse prima di sedersi davanti a lei. Si scambiarono uno sguardo imbarazzato, quella situazione aveva dell’inverosimile. Adam aveva sempre pensato che ritrovando Samantha avrebbe finalmente ritrovato la sua casa, il suo posto in quel mondo malato e invece in quel momento si sentiva stranamente a disagio, si era fatto sopraffare dagli eventi e dai sentimenti, ma non voleva cedere.
    ”Questo prima era il Kelvingrove Cafe, uno dei locali più rinomati di Londra. Il proprietario affidò questo posto a suo figlio che lo mandò in rovina fino al fallimento. Per molti anni prima della guerra è rimasto abbandonato, io e Matthew ci venivamo a giocare quando eravamo ragazzini, sai?” La sua voce era più calma del suo animo, non lasciava trasparire l’agitazione attraverso le sue parole, anche se il suo volto a volte lo tradiva più di quanto non volesse.
    La signora che prima gli aveva indicato la sala da tè era tornata per lasciargli dei menù di bella fattura e scritti a mano in bella grafia. Adam prese il suo, lanciando delle occhiate di sottecchi a Samantha, la quale lo sorprese con una domanda totalmente inaspettata. Il suo sguardo si fece interrogativo e un sorriso enigmatico si allargò sulle sue labbra. ”Adori il tè nero senza limone e con poco latte, anzi a volte anche senza.” Fece scorrere lo sguardo sul menù, indugiando sulla pagina dedicata al cibo. ”So per certo che troveresti di tuo gusto la torta di mele, anche se col tè hai sempre preferito gli scones ripieni di crema.” La fissava dritto negli occhi mentre diceva quelle parole con estrema sicurezza, avevano preso il tè insieme a casa di Samantha così tante volte che avrebbe potuto farle l’elenco di cosa le piaceva ad occhi chiusi.
    ”Ma dimmi, cosa credi che potrebbe piacere a me?” Alzò un sopracciglio, mentre sul suo viso andava delineandosi un’espressione di sfida che ancora non le aveva mai mostrato. Stimolarla in quella maniera poteva essere utile o semplicemente divertente. Gli mancava l’ironia pungente di quella ragazza, ma temeva che non l’avrebbe ritrovata a breve. ”Io so molte cose di te, ma tu non hai ancora chiesto nulla su di me. Non ti alletta l’idea di sapere che ruolo io abbia avuto nella tua vita o hai paura di scoprirlo?” Ancora quel tono di affronto e mentre pronunciava quelle parole si sporse sul tavolo verso di lei, senza mai distogliere lo sguardo dal suo. Non poteva scappare ancora a lungo dalla verità… da lui. Le stava parlando come se fosse un dato di fatto che avessero avuto un passato insieme ed effettivamente era così, anche se lei ancora non gli credeva fino in fondo.
    Allungò una mano sul tavolo e andò a catturare quella di lei, facendole cadere il menu dalle mani. L’atmosfera stava cambiando lentamente a colpi di battute, si stava caricando di un’elettricità che per la prima volta non era dovuta al nervosismo, ma a una sensazione piacevole. D’un tratto l’aria venne riempita dalle note di una soave melodia: una giovane donna dai folti capelli biondi si era seduta al pianoforte che stava al centro della stanza e suonava con gli occhi chiusi, era una delizia da guardare con quell’aria dolce e rapita; muoveva il capo al ritmo della sua stessa musica e muoveva le dita sulla tastiera con una grazia che pareva ultraterrena. ”E’ bravissima, non trovi?” Non aveva ancora lasciato andare la sua mano, ma aveva spostato il suo sguardo verso la pianist per un breve istante prima di depositarlo nuovamente su Samantha. ”Questa canzone mi ricorda mia madre, lei adorava suonare il pianoforte, ne avevamo uno in casa e mi obbligò ad imparare a suonarlo almeno un po’. Io le ho sempre detto che era roba da femminucce, ma quando misi le mani sulla tastiera con lei per la prima volta rimasi affascinato. Non sono un gran pianista, ma so suonare qualcosa. Ma questo dovresti saperlo perché una sera eravamo nel salone di casa mia seduti al piano e ci siamo baciati dopo che avevo eseguito un brano per te e…” Si fermò spiazzato dalle sue stesse parole, si stava aprendo con lei, le stava parlando come avrebbe parlato alla vecchia Samantha, senza freni e senza pensieri. Aprì e chiuse la bocca un paio di volte senza dire niente, non sapeva neanche lui cosa aggiungere per rimediare a quel momento di spontaneità che in un’altra situazione non sarebbe stato affatto un problema. Abbassò lo sguardo imbarazzato e ritrasse di poco la mano da quella di lei, voleva lasciarla libera di scegliere se restare o andarsene dopo il suo comportamento: non si trattava solo di averle ricordato del bacio, ma anche di essersi infuriato per Julian e per il suo averla trattata tutto il tempo secondo la sua visione di Samantha e non quella che lei aveva di se stessa. Aveva diversi motivi per alzarsi e andarsene, ma in cuor suo sperava che rimanesse.

    It’s only after
    we’ve lost everything
    that we're free to do anything

    « swän » code esclusivo del London gdr. Non usare senza il mio permesso.

     
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    Elizabeth "Samantha" Montgomery » human
    It's been a long time
    Now I'm coming back home
    I've been away now
    Oh how I've been alone

    Wait till I come back to your side
    We'll forget the tears we've cried

    But if your heart breaks
    Don't wait, turn me away
    And if your heart's strong
    Hold on, I won't delay

    (Wait – The Beatles)

    Samantha. Era così che le persone che mi incontravano per caso continuavano a chiamarmi, aspettandosi che io rispondessi loro come se li conoscessi, come se sapessi perfettamente chi loro fossero. Ma non lo sapevo e non conoscevo neanche quella Samantha. Per me non era altro che un nome, uno come tanti, un nome che, pensandoci bene, non riuscivo neppure a vedermi bene addosso. Quasi due anni erano passati dal mio risveglio, se avevo fatto bene i calcoli, un tempo in cui nessuno era venuto a cercarmi, un tempo in cui Elizabeth aveva preso posto nella mia vita, divenendo l’unica me stessa che io conoscessi, l’unica che sentissi davvero parte di me. Elizabeth, non Samantha, come il nome riportato su quel medaglione che era stato l’unico pezzetto del mio passato a rimanere con me dal momento del mio risveglio, l’unico pezzetto della vera me che non mi aveva mai lasciata sola e che mi aveva accompagnata per tutto quel tempo. Quell’oggetto era stata l’unica cosa a portarmi un briciolo di conforto in quell’ultimo periodo, quando mi ero ritrovata ancora più sola di quanto fossi stata all’inizio. E lo avevo stretto tra le mani, rasserenandomi all’idea di essere sulla strada giusta, di avere davvero qualcosa che potesse condurmi verso casa, un giorno. Ma se davvero quella Elizabeth non ero io, allora lei chi era? E perché portavo il suo medaglione al collo? E se davvero quelle persone mi conoscevano, allora perché non erano state loro a cercarmi? Perché era stato il principe a trovarmi sulle prime luci dell’alba e non loro? Forse era un pensiero cattivo, forse sbagliavo a cercare di scaricare le colpe su qualcuno, chiunque fosse, ma che cosa avrei potuto fare io nelle condizioni in cui mi trovavo? Eppure volevo delle risposte, volevo riuscire a ricostruire qualcosa della persona che ero stata, della vita che avevo vissuto e sebbene non riuscissi a ricordarmi di lui c’erano delle cose in ciò che mi diceva che avevano un’aria familiare, come se le avessi già sentite tempo prima, e forse era così, o forse no, ma se non ci avessi neppure provato non sarei comunque potuta arrivare da nessuna parte.
    Continuavo a guardarlo, come se mi aspettassi di ricevere la conferma a quanto diceva da un momento all’altro, di ricordare il suo viso, di ricordare qualcosa, qualunque cosa potesse aiutarmi a decidere se dovevo davvero fidarmi di lui o meno. Ma niente arrivava e io continuavo a rimanere lì, di fronte a lui, senza sapere bene che cosa fare o che cosa dire, lasciando che fosse il mio istinto ad agire per me, con il rischio di combinare qualche disastro, com’era solito fare. Ma cosa avrei potuto fare di diverso in fondo? Dovevo andare via, fingere di non averlo mai incontrato e di non essere incuriosita dalle sue parole? Abbandonare già alla nascita una strada che sarebbe potuta essere quella giusta, senza poi guardarmi indietro? Non potevo. Non avrei mai potuto, soprattutto non ora che non avevo poi molte altre strade da percorrere a parte quella. Era arrivato in una maniera bizzarra e bizzarro era rimasto il nostro incontro per tutto il tempo, con quella strana aria di imbarazzo che non voleva abbandonarci neppure per un secondo e che io non riuscivo a capire da che cosa derivasse. Era solo perché io non lo conoscevo? O c’era forse dell’altro che mi sfuggiva? Qualcosa in quel suo sguardo luminoso che sembrava sempre in attesa di qualcosa che io non riuscivo a capire, così come il suo corpo, in parte proteso in direzione del mio, ma allo stesso tempo lontano, come se temesse di avvicinarsi troppo. E in parte lo temevo anche io, sebbene il contatto tra le nostre mani non mi avesse dato fastidio. Era stato strano e inaspettato, ma qualcosa dentro di me mi aveva convinta a restare, a non rifuggirlo, ad accettarlo. E quella scelta non faceva altro che dare vita a nuove domande nella mia testa, perché non riuscivo ad avere davvero paura di lui? Perché sentivo di poter stare assolutamente tranquilla?
    Mi disse di ricordarsi di Demetra sebbene non la vedesse da molto tempo e che eravamo soltanto due ragazzine prima che io gliela presentassi. Accennò un sorriso a quelle parole, ma io non lo ricambiai, rimanendo seria e leggermente spaesata di fronte a tutta quella situazione. -Lei non ha mai detto nulla a riguardo. Mi ha solo chiamata Sam, una volta e poi nient’altro, non ha mai cercato di raccontarmi nulla. mi ha parlato di lei e mi ha chiesto di me e mi ha invitata a tornare da lei ogni volta che lo desiderassi. – dissi, senza quasi pensarci, parlando d’istinto. Demetra non aveva cercato di introdursi con la forza nella mia vita, era stata una presenza dolce e leggera che mi aveva sorriso dal primo momento ed era sempre stata molto comprensiva. Quando avevo rifiutato il suo appellativo, dicendole di chiamarmi Elizabeth, lei aveva fatto un passo indietro, assecondandomi, lasciando che fossi io a pormi dei dubbi da sola e a tornare da lei per conoscerla meglio, per ritrovare una persona che forse avevo perduto nel tempo e che era pronta a tornare nella mia vita quando io lo avessi desiderato. Era sempre stata molto buona con me e apprezzavo molto la sua presenza proprio per questo. Mi poneva sempre domande in maniera gentile, lasciandomi la possibilità di non rispondere quando preferivo non farlo, permettendomi di avvicinarmi a lei con piccoli gesti, come quando la aiutavo con le faccende dell’orfanotrofio oppure a preparare qualche dolcetto come sorpresa per i bambini. La sua vicinanza riusciva a rendermi serena e a farmi dimenticare, almeno per qualche momento, ogni altro pensiero o preoccupazione. Non feci caso al fatto che le mie parole sarebbero potuto risultare in qualche modo accusatorie, dicendogli come lei si era approcciata a me, in maniera così diversa rispetto al metodo che stava adottando lui, che invece aveva iniziato subito a raccontarmi delle cose. Lei riusciva a farmi stare più tranquilla, ma in qualche modo avevo il bisogno di sapere, di acquisire quante più notizie possibili per poi avere il tempo di assimilarle e di rifletterci su. Perché inizialmente non avevo creduto neanche a lei, quel nome era risuonato nella mia mente senza rendermi in cambio nessun ricordo, ma con il tempo avevo iniziato a pensarci e ripensarci e qualcosa, in quei miei piccoli sprazzi di ricordi, aveva acceso una nuova luce all’interno della mia mente e la possibilità di essere davvero io la persona che lei aveva salutato, prima di fingere di aver sbagliato.
    Tuttavia sentire le sue successive parole non mi fece comunque molto piacere. Non mi sentivo a mio agio all’idea che qualcuno pretendesse qualcosa da me. -E se lei non esistesse più? Se non ci fosse alcun modo di ritrovarla? – gli chiesi, di getta, forse con una punta di rabbia nella voce nel pronunciare quelle parole. Nessuno voleva prendere in considerazione l’idea che la mia memoria sarebbe anche potuta non tornare mai, ma se così fosse davvero stato? -Tutti continuata e ripetere che mi aiuterete, ma se non ci fosse nulla da fare? Se lei non ci fosse più? Se ora io potessi essere solo questo? – chiesi, guardandolo dritto negli occhi. Forse era scorretto da parte mia porlo di fronte a quel problema, ma perché non provava a mettersi nei miei panni e a valutare anche quello? Io mi ero sforzata con tutta me stessa per ricordare qualcosa, per provarci, ma il timore che potesse non accadere non mi aveva mai abbandonata e sentire sempre gli altri dare la cosa per scontata mi faceva infervorare. Non erano loro a non ricordare, non erano loro a dover stare giorno e notte in un luogo indefinito che non conoscevano, in un mondo a cui sentivano di non appartenere, in una vita che da tempo non sembrava più la propria. Eppure dovevo convincerci comunque, dovevo imparare ad accettare anche quell’eventualità, ma di fronte ad affermazioni come quella sembrava davvero impossibile. Forse era sbagliato prendersela così tanto, lui forse stavo soltanto cercando di mostrarsi disponibile. Ma io non lo conoscevo, non sapevo niente di lui e non riuscivo ancora a convincermi della effettiva possibilità che io potessi essere lei. Volevo esserlo, con tutta me stessa, avere un passato, degli amici da cui tornare, magari persino una famiglia, ma non potevo farlo se prima non riuscivo a capire qualcosa, se non riuscivo a capire se mi sarebbe davvero stato possibile ricordare. Perché se non fosse accaduto allora cosa sarebbe successo? Se Samantha non fosse tornata lui cosa avrebbe fatto?
    Quando gli parlai del principe e di come lui mi avesse salvata e poi portata al castello notai un’espressione non molto contenta sul suo volto. Mi disse che c’erano delle persone che mi cercavano, degli amici e altre persone e che non ero sola. Quel e non solo mi fece balzare quasi sull’attenti, guardandolo con più attenzione ora. -La mia famiglia è ancora viva? – chiesi, supponendo per un attimo di essere davvero quella ragazza. Non ero certa che lui si riferisse a quello, ma loro erano stati il mio primo pensiero al sentire quelle parole. Perché non avevo mai smesso di pormi domande su di loro, di chiedermi se fossero sopravvissuti alla guerra, se fossero ancora lì fuori, da qualche parte, a cercarmi, ad attendere il mio ritorno. Solo dopo pensai alle implicazioni che quella mia domanda avrebbe potuto avere. Se mi avesse detto che erano morti, che erano tutti morti, che cosa avrei fatto io allora? Sarei riuscita ad andare avanti allo stesso modo? O mi sarei lasciata completamente andare? Mi ritrovai a sperare che non rispondesse a quella domanda, che mi dicesse di non saperne niente. Non volevo apprendere quella notizia in quel modo, non lo volevo più.
    Quando si appellò a Julian come un succhiasangue chiedendomi se doveva la sua riconoscenza a lui per la mia vita io lo guardai leggermente confusa. Sembrava furioso e io non riuscivo a capire. Non avevo mai sentito nessuno parlare di un vampiro in quel modo fino a quel momento, nessuno aveva il coraggio di farlo eppure lui ne stava parlando pubblicamente, come se nulla fosse. -Non dovresti dirlo ad alta voce, qualcuno potrebbe sentirti. – gli dissi, ammonendolo per quella leggerezza. Non volevo che qualcuno gli facesse del male per colpa mia, che lo arrestassero perché se l’era presa contro uno dei principi. Mi avvicinai piano a lui quando mi diede le spalle, posando delicatamente una mano sulla sua spalla. -Non mi hai mai fatto del male se è questo che ti preoccupa. Non ha mai alzato un dito su di me. – dissi, mentre nella mia mente riecheggiava il ricordo di quella notte in cui ci eravamo avvicinati troppo, in cui le cose erano sembrate cambiare, per poi rovinarsi del tutto. Eppure non mi aveva mai ferita, non fisicamente almeno, questo glielo dovevo, solo questo. Potevo odiarlo per il modo in cui si era comportato con me e aveva giocato con i miei sentimenti, potevo essere furiosa per come erano andate le cose, ma non avrei mai potuto accusarlo di qualcosa che non aveva commesso. -Ero al sicuro. Nessuno mi ha mai fatto del male, Julian non lo avrebbe permesso. – dissi ancora, forse parlando un po’ troppo, senza accorgermi del fastidio che le mie parole avrebbero potuto dargli. Non riuscivo capire che legame ci fosse stato tra di noi, o forse una parte di me aveva iniziato a capirlo, ma mi sforzavo di non accettarlo e di non pensarci.
    Mi promise comunque che mi avrebbe riportata al castello sana e salva in tempo, per poi chiedermi di seguirlo verso un luogo un po’ più tranquillo. Non seppi per quale strano motivo accettai di seguirlo, senza sapere neanche dove avesse intenzione di portarmi, ma cercai di non mettermi troppi problemi a riguardo. Arrivammo in poco tempo in un piccolo locale dall’aria calda e accogliente che riuscì a tranquillizzarmi almeno un po’. Ci inoltrammo nella sala fino ad un piccolo tavolo in disparte e arrivati lì, lui scostò la sedia per farmi sedere. Arrossi appena per quelle premure mentre sentivo il cuore accelerare un po’ e l’aria farsi un po’ più pesante mentre cercavo di respirare di nuovo con tranquillità. Quella situazione era decisamente imbarazzante e io non sapevo come uscirne. Sollevai appena lo sguardo, incontrando il suo, che sembrava tanto imbarazzato quanto il mio e sospirai appena, cercando di darmi una calmata. Mi raccontò che quello un tempo era uno dei locali più rinomati di Londra, ma aveva conosciuto una certa sfortuna ed era caduto in disgrazia. Era un posto legato al mio passato, o almeno ciò che di esso era rimasto prima che venisse trasformato in un luogo locale, che profumava di dolci e di allegria. Pronunciò un altro nome che probabilmente avrei dovuto ricordare e arricciai appena le labbra, senza sapere se trattenermi o porre la domanda e alla fine optai per la seconda. -Chi è Matthew? E’ un tuo amico? – chiesi, in parte incuriosita da tutti quei racconti, in parte spaventata da tutte quelle novità che ancora non sapevo come prendere. Forse tutte quelle domande gli davano fastidio, a quello non avevo pensato. -Scusa, non faccio che fare domande. Dovrei smetterla. – dissi, con un leggero sospiro, immergendo lo sguardo nel menù per evitare di guardarlo in volto. Provai a chiedergli che cosa mi sarebbe dovuto piacere e mi diede una risposta tranquilla, senza alcun timore nella voce. -Demetra fa un’ottima torta di mele. Per il resto non ricordo di aver mai assaggiato il thè nero, né i.. come li hai chiamati? – chiesi, cercando nel menù una parola che potesse ricordare quella che aveva appena detto e di cui mi sfuggiva il suono al momento.
    Lo guardai non molto convinta quando mi chiede di dirgli cosa pensavo che sarebbe potuto piacere a lui, assumendo un’aria pensosa mentre cercavo di leggere velocemente il menù alla ricerca di qualcosa che mi ispirasse, alla ricerca di un ricordo, ma ancora una volta la mia mente non aveva intenzione di collaborare. -Uhm.. – emisi un verso pensieroso mentre cercavo nel menù qualcosa in grado di ispirarmi. -Thè.. verde? Giallo? Non ne ho davvero idea, credo di non sapere proprio come riconoscerli. – dissi, con un sorriso a metà tra il divertito e l’arrendevole. Non mi era sfuggita la sua espressione di sfida ma non avevo davvero nessuna carta da giocare in quel frangente. -Penso che.. tu sia più un tipo da salato che da dolce, uhm.. magari i crumpets? – chiesi, sempre più perplessa. Non avevo idea di cosa fossero, ma esistevano anche in versione salata e per questo mi ero orientata su quegli. Lo guardai, come in attesa di sapere se avessi azzeccato o se avevo soltanto combinato un pasticcio, ma le sue successive parole ruppero l’aria di allegria e tranquillità che si stava creando. Mi posizionai un po’ meglio contro la sedia, allontanandomi leggermente dal tavolino, mentre lui mi faceva notare che non gli avevo ancora chiesto nulla su di lui. stavolta il suo tono non mi piacque per niente e tentai di mordermi la lingua per evitare di rispondere in maniera troppo impulsiva, cercando invece le parole migliori per affrontare quel discorso. Lui si era avvicinato e io mi ero fatta più lontana. -In realtà mi piacerebbe scoprirlo da sola. – dissi, semplicemente, mentre lui allungava una mano sul tavolo, facendo cadere il menù dalle mie mani per afferrarle. Forse seguirlo non era stata poi una grande idea.
    Il mio cuore accelerò di nuovo mentre sentivo la tensione farsi sempre più forte. Avrei desiderato essere al castello in questo momento per non dover affrontare quella situazione e invece ero lì, di fronte a lui e lui continuava a cercare di avere dei contatti con me per quanto io cercassi invece di allontanarmi. Una musica irruppe all’improvviso nella sala riuscendo a distrarmi per qualche momento. Mi voltai verso la ragazza che aveva preso posto al pianoforte senza che io me ne accorgessi e aveva iniziato a suonare una canzone che aveva un che di lontano e di familiare. Mi disse che era bravissima e io mi ritrovai ad annuire in maniera distratta mentre lui continuava a parlare. Mi disse che sua madre adorava suonare e che per questo lo aveva obbligato ad imparare a suonare qualcosa sebbene lui in principio non lo volesse e non fosse quindi riuscito a diventare una stella del pianoforte, ma era comunque in grado di suonare qualcosa. Lo ascoltavo incuriosita, cercando di immaginarlo seduto davanti ad un pianoforte, senza però riuscirci e quando mi disse che aveva eseguito un brano per me e che ci eravamo baciati il mio sguardo si fece improvvisamente serio nel guardare nella sua direzione, mentre lui allontanava la mano della mia, forse accorgendosi solo in quel momento di ciò che aveva detto. -Decisamente non avrei voluto saperlo così. – dissi, facendomi improvvisamente seria e sempre più distaccata, mentre deglutivo piano, abbassando lo sguardo, cercando di calmarmi e di non agire d’impulso, di riflettere, ma non mi era poi così semplice. -Cosa ti aspetti ora? Che ti dica che mi ricordo tutto e che sia tutto come prima? Non è che così, mi dispiace ma io non ricordo niente, non c’è nulla nella mia mente che riesca a farmi ricordare di te. Io… – dissi, fermandomi per un istante a respirare mentre portavo leggermente indietro la sedia. -Io credo di dover andare ora. – terminai, senza guardarlo, mentre portavo ancora un po’ più indietro la sedia, pronta ad alzarmi. Ma la cameriera trovò il momento peggiore per raggiungerci. -Siete pronti per ordinare ragazzi? – chiese, con un sorriso radioso, guardando l’uno e poi l’altra. Io respirai a fondo, rimanendo immobile nella mia posizione, senza sapere cosa dire. Mantenni lo sguardo basso per un po’, poi sospirai appena, sollevandolo lentamente sul suo senza sapere cosa rispondere.


    Don't want your hand
    this time I'll save myself
    Maybe I'll wake up for once

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    Dreams are illusions, and we can't let go of them because we would be dead.
    David Copperfield


    La pioggia tamburellava lieve sui loro volti mentre parlavano, Samantha gli stava raccontando del suo incontro con Demetra e gli stava facendo notare quanto la ragazza fosse stata più delicata di lui nell’affrontare il problema della sua mancanza di memoria. Per un istante la guardò stupito come se fosse completamente assurdo il fatto che lei non capisse: Demetra non era innamorata di lei come lo era lui!
    Per anni aveva rincorso il suo fantasma tra la folla, rasentando la follia per la sua perdita e adesso… adesso era come se l’avesse persa sul serio. Il loro passato era sparito in un soffio di vento e lui non sapeva cosa fare per risistemare le cose, forse non doveva rimettere insieme i tasselli, ma costruire qualcosa di nuovo sopra a ciò che c’era. Tutti questi pensieri lo confondevano, chiuse per un istante gli occhi e poi tornò a fissare la ragazza in silenzio, lasciandola sfogare anche se le sue parole lo ferivano come nessun altro era mai stato in grado di fare. Adam sentiva un’insolita voglia di mollare tutto, rischiava che il cuore gli venisse strappato via dal petto in un solo colpo se avesse dato retta ai suoi sentimenti e purtroppo era esattamente ciò che stava facendo. Il suo amore per quella ragazza che non sapeva più nulla su se stessa era così forte che non poteva chiuderlo in un angolo remoto di se stesso e ignorarlo, ci aveva già provato, ma non aveva funzionato.
    ”Andrebbe bene lo stesso, mi piacerebbe conoscere anche Elizabeth, ma non puoi prescindere dalla verità.” Cos’altro poteva dirle senza ferirla a sua volta? Tutto il suo essere era in rivolta, eppure traspariva ben poco del caos che albergava nel suo animo. Adam sentiva il cuore martellare veemente nel petto, dal momento in cui l’aveva vista i battiti non avevano mai accennato a decelerare nemmeno per un istante. A distanza di tutti quegli anni Samantha aveva ancora il potere di emozionarlo e confonderlo in una maniera a cui non era più abituato, nessun’altra donna era riuscita a farlo sentire così; ci aveva provato sul serio a uscire con qualche altra ragazza, ma finiva sempre allo stesso modo: lui scappava perché non provava nulla per la malcapitata.
    Nell’aria c’era una tensione quasi palpabile, mentre i loro discorsi deviavano verso gli amici e i parenti che, come Adam, non avevano perso la speranza di ritrovarla dopo tutto quel tempo. A quel punto Samantha gli fece una domanda che lui aveva previsto sin dall’inizio, ma che sperava che arrivasse il più tardi possibile. Gli chiese che fine aveva fatto la sua famiglia. Con che cuore poteva dirle che i suoi genitori erano morti? L’unico rimasto in vita era suo fratello, ma Adam non sapeva dove fosse andato, lo aveva visto una sola volta molti anni fa e poi non ebbe più sue notizie.
    Non voleva essere lui a darle quella triste notizia, ma in qualche modo doveva farglielo capire, era l’unico che conoscesse il suo passato e non poteva scappare da quell’onere. L’avrebbe aiutata a rimettere insieme il cuore a brandelli, se necessario l’avrebbe stretta a se’ per giorni interi per tenerla insieme per evitare che si sgretolasse per il dolore. L’unica cosa che riusciva a pensare in quel momento era ad essere il più delicato possibile nel riferirle la verità. ”Posso?” La sua voce era un flebile sussurro. Allungò la mano verso il medaglione della ragazza e lo aprì tenendolo sul palmo disteso. ”I tuoi genitori saranno sempre qui con te.” Con un dito indicò il suo cuore, sperando di non dover aggiungere altro per farle capire cosa volesse dire. Non se la sentiva di parlarle di morte in maniera aperta, non voleva vederla crollare davanti a se’, sarebbe stato troppo persino per lui che ancora non era riuscito ad attutire il colpo della sua mancanza di memoria. ”Tuo fratello è fuggito da Londra molto tempo fa, ma non so dove si trovi adesso, non lo vedo dalla fine della guerra… mi dispiace.” E poi silenzio…
    Fu Samantha a rompere l’atmosfera pesante che si era creata parlando di chi le aveva salvato la vita e quello per Adam fu il colpo più duro da incassare: Julian Lancaster era colui a cui doveva la sua riconoscenza per la sua vita. Stava per esplodere da un momento all’altro, se lo sentiva, quindi si girò di scatto dando le spalle alla ragazza ripetendo il suo nome dentro la testa per non lasciarsi andare alla rabbia cieca che stava montando dentro di lui. Perché il destino ce l’aveva con lui? Coloro che gli avevano tolto tutto erano gli stessi che avevano salvato il suo tutto, la sua ragione di vita.
    Adam strinse i pugni e mentre esprimeva il suo odio per i vampiri sentì la mano di Samantha sulla sua spalla. Il calore di quel contatto gli fece perdere la cognizione per un istante, sentiva solo la sua pelle contro la sua camicia e quella sensazione di benessere che si irradiava per tutto il corpo, ma le parole di lei arrivarono a rovinare quella magia.
    ”Non dirlo a voce alta? Cosa? Che i succhiasangue hanno sterminato la mia famiglia? Non voglio parlarne.” Era fermo immobile, rigido nonostante la mano di lei fosse ancora sulla sua spalla, non si girò a guardarla perché in quel momento il suo animo stava vacillando e bastava davvero poco a farlo esplodere. Non sapeva come aveva fatto a non uscire di senno neanche quando Samantha gli disse che Julian non le aveva torto un capello e che con lui era al sicuro. Cristo! Davvero? Davvero quel lurido verme l’aveva protetta? Adam scansò la mano della ragazza, gli faceva male persino quella, faceva fatica a respirare.
    ”Difenderti era compito mio…” Un sussurro vuoto, privo di emozioni, la rabbia era tornata ad essere quel senso di vuoto che lo aveva attanagliato per anni. Il dolore era talmente forte che aveva smesso di sentirlo tutto d’un tratto, i suoi sentimenti si erano sopiti per non dover più sopportare quelle lacerazioni interne che lo stavano massacrando.
    Dopo un lasso di tempo incalcolabile Adam si voltò verso Samantha promettendole di riportarla sana e salva al castello se lo avesse seguito, voleva portarla in un posto dove avevano trascorso dei bei momenti insieme e stimolarle la memoria, ma era così abbattuto dopo tutte quelle scoperte che non era certo che funzionasse. Camminarono in silenzio fino al Kelvingroove Cafè, vi entrarono e lui lasciò che Samantha scegliesse dove sedersi, presero i menù e Adam le spiegò che lui e Matthew andavano spesso lì quando erano dei ragazzini. ”Matthew è tuo fratello… puoi fare tutte le domande che vuoi.” Lo disse a voce bassa, come se avesse timore che a dirlo troppo forte lei sarebbe scappata. Non riusciva a sentirsi a suo agio con lei. Perché? Eppure non aveva aspettato altro per anni.
    Rimase a fissare Samantha in silenzio quando si rese conto di non aver capito perché lei gli aveva chiesto cosa poteva piacerle da ordinare: non sapeva cosa ci fosse scritto sul menù, non conosceva quei tipi di tè e il cibo che servivano lì. Non aveva minimamente pensato che la sua memoria potesse essere danneggiata fino a quel punto, aveva intuito che non ricordava il passato, ma addirittura dimenticare gli alimenti. Era molto più grave di quel che credesse. Gli sfuggì un sospiro sommesso e ascoltò la ragazza mentre gli diceva che probabilmente lui avrebbe gradito dei crumpets, non ne andava matto, ma non voleva deluderla. ”Adoro i crumpets…” La sua prima bugia, ma non riusciva a smettere di pensare che era tutto finito, che l’amore in cui aveva creduto per tutto quel tempo non esisteva. Aveva ragione chi diceva che l’amore è per gli illusi, proprio come lui. Fu proprio quel pensiero a spingerlo a parlare troppo con lei del loro passato insieme, della loro relazione, desiderava ardentemente che lei si ricordasse di lui, ma non era con quell’atteggiamento che avrebbe risolto la situazione. Infatti la ragazza reagì male, si vedeva che era turbata dalle sue parole. Adam non riusciva più a gestire le sue emozioni, un momento si sentiva in paradiso e quello successivo all’inferno. Doveva riacquistare lucidità se voleva rivedere Samantha in futuro, altrimenti rischiava di rovinare tutto senza aver nemmeno provato a riconquistarla.
    ”Come ti aspetti che mi comporti? Ti ho cercata per anni in ogni angolo di Londra, ho persino creduto che fossi morta…” L’ultima parola la pronunciò in un sussurro spezzato. ”Finalmente ci ritroviamo dopo anni di ricerche a vuoto e scopro che non ti ricordi di me mentre io non ti ho mai dimenticata. Cristo, Samantha, Elizabeth o come vuoi che ti chiami… io ho scosso il tuo mondo arrivando con prepotenza, è vero, ma tu hai fatto la stessa cosa. Tu non sai chi sono e io non so chi sei diventata, forse proprio per questo dovremmo darci una seconda opportunità. Nessuno dei due è stato in grado di gestire la situazione.” Prese fiato dopo aver detto tutto con la fretta di chi parla con sincerità, col cuore in mano. ”Ricominciamo, ti va? Io sono Adam.” Allungò una mano verso la ragazza con gli occhi accesi di una speranza rinnovata. Quella era l’unica soluzione che gli era venuta in mente, poi in solitudine avrebbe escogitato qualcosa di meglio, ma adesso con tutta la confusione che albergava in lui non era riuscito a pensare ad altro.
    In quel momento arrivò la cameriera che voleva prendere le ordinazioni e Adam la congedò con cortesia: ”Potrebbe ripassare tra un istante, ancora non abbiamo scelto. Grazie.”
    Adam allungò lo sguardo verso il pianoforte che aveva causato la sua scivolata con Samantha e gli venne in mente un’idea: lei gli aveva appena detto che voleva andarsene e lui non avrebbe sarebbe venuto meno alla sua promessa di portarla al castello, ma prima voleva fare un ultimo tentativo senza proferire parola perché ogni cosa che diceva era sempre quella sbagliata. Così si alzò e l’unica cosa che disse fu: ”Vieni con me…” Si fece seguire da Samantha fino al pianoforte e la fece accomodare al suo fianco sullo sgabello allungato con la base in legno scuro e la panca in legno chiaro. Adam le rivolse un sorriso luminoso, carico di tacite scuse e dolci promesse, poi abbassò lo sguardo sulla tastiera e iniziò a suonare una canzone che le aveva dedicato molti anni fa, ma non glielo disse per non rovinare di nuovo tutto. Era un’emozione intensa suonare di nuovo quel brano con lei al suo fianco, si sentiva in pace con se stesso mentre le sue dita scorrevano sui tasti con una naturalezza che aveva dimenticato di avere. La musica era leggera nell’aria e in molti nel locale si erano fermati a guardare quella coppia di giovani seduta al pianoforte. Quando Adam smise di suonare ci fu un applauso generale e il ragazzo arrossì perché non si era minimamente reso conto di quello che stava accadendo intorno, era così preso dal pezzo e da Samantha che aveva dimenticato il resto del mondo. Si voltò verso Samantha e disse: ”Scusa… non so come gestire questa situazione.” Senza riflettere l’abbracciò piano, come se temesse che potesse rompersi da un momento all’altro. In quel momento si sentiva completo con lei al suo fianco, il mondo era diverso con Samantha vicino e per tanti anni aveva rischiato di dimenticarlo. Non avrebbe permesso ai suoi problemi di memoria di tenerla lontano da lui e tanto meno a quel succhiasangue di Julian. Avrebbe riconquistato la ragazza ricominciando daccapo, lo giurò a se stesso perché così come in quell’abbraccio non era stato bene mai. La lasciò andare prima che quel gesto divenisse invadente e tornò a parlare con lei: ”Scusa Samantha, forse è il caso che ti riaccompagni al castello. Ti avevo promesso che non ti avrei fatto del male e che ti avrei riportata lì sana e salva. Mantengo sempre le mie promesse.” In passato le aveva promesso che l’avrebbe ritrovata e così era stato, non l’avrebbe persa di nuovo, ma per il momento lasciarla andare era la cosa più giusta da fare.
    Uscirono dal locale senza prendere nulla da mangiare e in silenzio percorsero la strada che li conduceva al castello. Era tutto così strano, stavano per lasciarsi di nuovo, solo che quello era un arrivederci. Il mondo attorno a loro vorticava, passarono di nuovo per il mercato dove c’erano ancora i saltimbanchi e colori, urla e musica investirono i due giovani che parvero non accorgersene. La vita tutto intorno proseguiva rapida e movimentata, mentre loro camminavano in una bolla d’aria dove non c’era altro se non loro. Sempre in silenzio passavano accanto alla vita che scorreva e la superarono arrivando davanti al castello, il luogo che li aveva separati per tutti quegli anni. Adam si morse il labbro inferiore, ma non disse ancora nulla, si voltò a guardare Samantha con intensità, doveva ricordarsi che era solo un arrivederci.
    ”A presto…” Le aveva fatto un’altra promessa e avrebbe mantenuto anche questa.

    It’s only after
    we’ve lost everything
    that we're free to do anything

    « swän » code esclusivo del London gdr. Non usare senza il mio permesso.

     
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    Elizabeth "Samantha" Montgomery » human
    Avevo notato la sua espressione farsi più seria quando gli avevo parlato di Demetra, calcando forse un pò troppo la mano su determinate questioni che avevano reso diverso l’incontro che avevo avuto con lei da quello che stavo avendo con lui. Ma lei mi aveva fatto stare bene, mi aveva fatto sentire a casa, mentre lui in qualche modo riusciva a farmi sentire a disagio con tutta quella pressione e quelle promesse che probabilmente non sarebbe riuscito a mantenere. Perché se Julian non era riuscito a trovare un modo per farmi tornare la memoria, lui che aveva a disposizione il denaro e la magia, come avrebbe potuto farlo qualcuno che non aveva a disposizione nulla del genere? Però lui sembrava avermi conosciuta, sembrava sapere esattamente chi io fossi anche se la descrizione che lui mi stava facendo, passo dopo dopo, mi risultava difficile sovrapporre a quel poco che avevo avuto modo di scoprire su me stessa. Se anche un tempo quella ragazza potesse essere esistita davvero, se anche io un tempo fossi stata lei, nulla di quella Samantha sembrava essere rimasto in me ed era il fatto che nessuno sembrasse volerlo accettare, a rendermi terribilmente nervosa. Tutti non facevano che trattarmi come se ci fosse qualcosa di terribilmente sbagliato in me, qualcosa di rotto che andava necessariamente rimesso a posto, ma se non ci fosse stato più nulla da fare? Se ormai quella parte di me era persa per sempre e non ci fosse stato più alcun modo di aggiustarla? Quelle domande erano diventate così opprimenti e così urgenti che non riuscii a tenerle per me, ritrovandomi a pronunciare quella domanda ad alta voce, per poi guardarlo negli occhi, cercando di capire la sua reazione. Mi disse che gli sarebbe andato bene lo stesso, che avrebbe voluto conoscere anche Elizabeth, ma il modo in cui mi disse che non potevo prescindere dalla verità e lo sguardo che mi rivolse, mi fecero intuire che non era esattamente così. Sembrava abbastanza evidente che lui voleva soltanto che io mi ricordassi e che tutto tornasse ad essere come era stato in passato, ma purtroppo non mi era possibile.
    Lasciai comunque perdere, almeno per quel momento. Non avevo intenzione di litigare con qualcuno di cui non sapevo nulla, con l’unica persona che forse avrebbe potuto aiutarmi a recuperare qualcosa, anche se era piuttosto complicato cercare di mantenere la calma e avere a che fare con qualcuno che sembrava pretendere con una certa impazienza dei ricordi da me. Non potevo capire come lui dovesse sentirti di fronte alla mia totale incapacità di riconoscerlo, ma a quanto pare neanche lui capiva quando fosse complicato con me vivere una situazione come quella. Cercai di spostare l’attenzione su qualcosa di diverso, se davvero lui mi aveva conosciuta allora magari poteva sapere dove si trovava la mia famiglia, dove si trovava la mia casa, così provai a chiedergli qualcosa dei miei genitori, anche se temevo quella che sarebbe potuta essere la sua risposta. In fondo loro non mi avevano cercata e questo poteva voler dire molte cose. Sollevai lo sguardo su di lui, incerta, quando lui allungò la mano verso il medaglione che portavo al collo, chiedendomi il permesso di prenderlo, per poi aprirlo, dicendomi che i miei genitori sarebbe sempre stati con me, per poi indicare il mio cuore. Non lo aveva detto apertamente, ma avevo compreso che cosa volesse dirmi e mi limitai ad annuire, mentre il suo sguardo si perdeva nel vuoto per un momento. Avevo desiderato così tanto rivederli, recuperare quelle persone che non avevano più un volto nei miei ricordi, ma in quel momento mi ritrovai a chiedermi se non fosse meglio così. In fondo io non li ricordavo e forse per loro ritrovarmi sarebbe stato soltanto un peso in più, che ero felice di potergli risparmiare. Ma fu quando parlò di mio fratello che mi ritrovai a risollevare lo sguardo su di lui, sentendogli dire che lui era riuscito a scappare, anche se non aveva idea di dove fosse. Annuii appena, prendendo un lento respiro e cercando di scacciare ogni pensiero dalla mente. Per anni mi ero chiesta che fine avessero fatto, ed ora che qualcuno sembrava in grado di dirmelo mi risultava abbastanza complicato riuscire a convivere con la verità. Avrei avuto bisogno di un po’ di tempo per pensarci e metabolizzare il tutto, ma non volevo farlo in quel momento, non lì.
    Cercai di riscuotermi, raccontandogli a larghe linee quello che mi era capitato dopo la guerra, notando quanto l’idea che il principe mi avesse salvata lo avesse irritato, tanto da portarlo a darmi le spalle per cercare di calmarsi, senza riuscire a fare a meno di esternare il suo odio per i vampiri e quando gli feci notare che non avrebbe dovuto dirlo, perché dire in pubblico qualcosa del genere poteva essere molto pericoloso, mi rispose con tono secco e arrabbiato, facendomi però capire perché avesse reagito così. I vampiri avevano ucciso la sua famiglia e allora non mi sentii più di rimbeccarlo. Sicuramente doveva sapere meglio di me quanto fosse pericoloso esprimere disappunto nei confronti della famiglia reale, ma in fondo aveva le sue ragioni. Spostò la mia mano dalla sua spalla quando gli dissi che ero sempre stata al sicuro al castello, per poi dirmi che difendermi era compito suo una volta, in un sussurro quasi udibile, in cui però era chiara la rabbia che stava provando in quel momento. -Difendermi non dovrebbe essere compito di nessuno. – dissi, a quel punto, senza sapere bene neanche io perché, ma in fondo aveva sempre detto anche a Julian che non volevo che lo facesse, nonostante tutto. Quella giornata si stava dimostrando molto più complicata di quanto avrei pensato, ma, contro ogni mia previsione, accettai comunque di seguirlo da qualche parte, per mangiare qualcosa. Non riuscivo a fare a meno di fargli delle domande, nonostante sapessi che sarebbe stato meglio evitare, ma lui mi disse che potevo chiedergli tutto quello che vuole, dopo avermi fatto sapere che Matthew era il nome di mio fratello. Mi dispiacque non riuscire a ricordarlo, non riuscire a collegare a quel nome alcun volto, ma ormai era qualcosa a cui ero stata costretta ad abituarmi.
    Neppure stare seduti all’interno di un locale parve riuscire ad alleviare la tensione che tra di noi si faceva sempre più netta, avrei quasi potuto toccarla se avessi allungato la mano nella sua direzione, eppure mi sforzai di cercare di mantenere la calma, di non pensarci troppo, ma fu quando lui mi rivelò che ruolo aveva avuto all’interno della mia vita che sentii il mondo crollarmi addosso. Gli avevo chiesto di non dirmelo, di lasciare che provassi a scoprirlo da sola, invece me lo aveva detto comunque, preferendo agire d’istinto come aveva fatto per tutto quel tempo. Provai un moto di fastidio e rabbia a quel punto nel sentirmi riversare addosso la verità e allora capii il perché di quella sua necessità che io ricordassi, ma il punto era che io non potevo, che io non avevo davvero idea di chi lui fosse e cercare di forzarmi in quella direzione non avrebbe fatto altro che peggiorare le cose. Non riuscii a fare a meno di riversargli addosso tutta la mia frustrazione a quel punto nel chiedergli che cosa volesse da me e nel dirgli, forse in maniera un po’ troppo dura, che in alcun modo avrei potuto darglielo dato che non era rimasto nulla all’interno della mia mente che sapesse collegarmi a lui. Chiusi gli occhi per un momento mentre lui mi fece capire di avermi cercata per anni, di aver pensato che io fossi morta e ora che mi aveva ritrovata le cose non stavano andando come lui avrebbe voluto, come lui forse aveva sperato. Sapeva perfettamente di aver scombussolato il mio mondo in quelle ore, ma mi disse che anche io avevo fatto lo stesso con lui, nel momento in cui ci eravamo incrociati, dato che lui non conosceva nulla della persona che io ero diventata in quegli anni ed era vero. Eppure sembrava comunque non volersi arrendere, nonostante non avesse la minima idea di come gestire quella situazione e mi chiese di riprovarci, di darci una seconda opportunità e ricominciare da capo, ma come potevo ricominciare da capo dopo quello che mi aveva detto? Se prima avevo cercato di dialogare con lui, di conoscerlo, ora che mi aveva fatto quella rivelazione non mi risultava più così semplice. Mi morsi appena il labbro, fissando la sua mano, tesa nella mia direzione, senza sapere che cosa fare. Sapevo che negargli quell’opportunità non sarebbe stato giusto, ma come avrei potuto dirgli che in quegli anni il mio cuore aveva preso a battere per un’altra persona?
    Allungai la mano quindi, forse più per senso di colpa che per altri motivi, sospirando appena mentre cercavo di riflettere su cosa avrei dovuto dirgli a quel nome, su che nome avrei dovuto usare. Mi sentivo confusa e più smarrita del solito e fu solo grazie all’arrivo della cameriera che potei evitare di dire qualunque cosa. Avevo bisogno di tornare al castello, di prendermi del tempo per pensare, non mi andava più di mangiare o di continuare a stare lì. Fortunatamente lui non ordinò, chiedendole di ripassare in un altro momento e di darci ancora qualche secondo per permetterci di decidere. Sentivo un peso piuttosto imponente all’altezza del petto e volevo soltanto poter tornare nella mia stanza, sedermi in un angolo e mettermi a pensare, ma lui mi chiese di seguirlo e ancora una volta fu il senso di colpa a convincermi ad alzarmi e seguirlo verso il pianoforte, per poi sedermi accanto a lui con una certa agitazione. Sapevo che non era colpa mia, che non c’era nulla che io avrei potuto fare per cambiare le cose in quegli anni, ma sapere che lui era sempre stato lì, che mi aveva cercata per tutto quel tempo mentre io dall’altra parte della città stavo iniziando a provare qualcosa per qualcun altro, mi stava facendo sentire una persona orribile. Provai un brivido lungo la schiena e sentii la viglia pressante di piangere, ma non lo feci. Rimasi seduta al suo fianco, rispondendo in maniera timida al suo sorriso, che sembrava quasi volersi scusare per essere stato così emotivo, prima di abbassare lo sguardo e iniziare a suonare. Forse avrei dovuto dirglielo, farlo in quell’esatto momento, ma come potevo rivelargli una cosa come quella dopo che avevo visto come aveva reagito al solo pensiero che Julian mi avesse difesa? Come avrei potuto dirgli che proprio il fatto che lui mi avesse salvata e mi fosse rimasto accanto mi avesse portata a provare dei sentimenti appena accennati per lui anche se lui non doveva ricambiarli? Immaginavo che gli avrei spezzato il cuore, ma se era Elizabeth che voleva conoscere ora, sarebbe stata quella la ragazza che avrebbe trovato dall’altra parte, ben diversa da quella che un tempo doveva aver tenuto a lui. Chiusi gli occhi per un momento mentre cercavo di concentrarmi soltanto sulla sua canzone, sperando che quella sarebbe riuscita a calmarmi almeno un po’, ma mi ritrovai a riaprirli, di scatto, con il cuore a mille, quando nella mia mente apparve un piccolo flash di una situazione molto simile che dovevo aver vissuto in passato. Probabilmente doveva averla già suonata per me e se era così allora in quel momento non volevo ricordarlo, non lì, non quando quei pensieri ora stavano affollando la mia mente. Presi un altro respiro, cercando di mantenere la calma mentre lentamente la musica scemava e il resto della sala iniziò ad applaudire, facendolo arrossire. Mi ritrovai a lasciar andare un leggerissimo sorriso a quel punto, mentre mi rivolgeva quell’espressione un po’ impacciata nel dirmi che non sapeva come gestire quella situazione, per poi irrigidirmi appena quando lui mi abbracciò, trattenendo per un momento il respiro. Era un gesto che non mi ero aspettata, che non riuscii comunque a ricambiare, rimanendo semplicemente immobile, con il cuore che mi martellava nel petto. Annuii quando mi disse che forse era il caso di tornare al castello e che mi aveva fatto una promessa che aveva intenzione di mantenere, come aveva sempre fatto.
    Immaginavo che questo avrebbe dovuto suggerirmi qualcosa, ma purtroppo non lo fece, o per fortuna, forse, dato che avevo deciso di non dirgli di quel piccolo dettaglio che era apparso nella mia mente per un momento. Non volevo illuderlo che la memoria potesse tornarmi davvero, non quando gli stavo tacendo altre cose che non avrebbe voluto sapere. -Si, grazie. – mormorai semplice, un po’ scossa, rialzandomi e seguendolo all’esterno del locale, senza riuscire a trovare nulla di intelligente da dire, limitandomi a camminare al suo fianco, nel più completo silenzio. Forse si aspettava che gli dicessi qualcosa, forse voleva che lo facessi, ma non ci riuscii. Continuavo a pensare a tutto quello che era successo, a tutte quelle cose che mi ero persa o che avevo sostituito e non riuscivo davvero a renderlo partecipe del filo dei miei pensieri. Arrivammo al castello senza che quasi me ne rendessi conto e solo allora mi decisi a guardarlo di nuovo, notando con quanta fatica stesse cercando di salutarmi, con uno sguardo intenso che esprimeva molto più di quanto fecero le due brevi parole che mi rivolse. Annuii, anche se non sapevo se ci saremmo rivisti di nuovo, avevo bisogno di un po’ di tempo per decidere, ma ormai si era quasi fatto buio e la notte mi avrebbe aiutato a chiarirmi le idee. -Buona notte. – dissi, soltanto, con un timido sorriso che non sapevo neanche io che cosa volesse dirgli, prima di sparire dietro la porta di servizio. Forse avrei dovuto dirgli qualcosa di diverso, forse avrei dovuto fare qualcosa di diverso, ma in quel momento, purtroppo, non mi era possibile.


    Don't want your hand
    this time I'll save myself
    Maybe I'll wake up for once

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